Seid Visin e Saman sono due facce della stessa medaglia, l’una d’oro e l’altra di stagno. Nocera e Novellara, nord e sud di uno stivale sempre più multietnico, sfruttato e bistrattato, trattato a proprio uso e consumo e poi rinnegato. Quell’Italia terra di nuova vita e di morte, croce e delizia.
Seid, ragazzo adottato da genitori italiani che in Italia diventa figlio e poi calciatore,l coronando il sogno della maggior parte degli adolescenti. Morto suicida per motivi che solo i genitori conoscono e che hanno voluto tenere privati in un primo momento, ma poi costretti a svelare.
Saman arriva in Italia dal Pakistan insieme con la famiglia per una speranza di vita migliore, per un futuro che la sua terra non gli ha offerto, per scelte che chi l’ha messa al mondo ha fatto anche per lei, fino a condannarla a morte. Allo strangolamento.
Seid è immediatamente diventato un caso da “sfruttare”, da rivendere sulle pagine dei giornali e sulle “prime pagine” di quelle trasmissioni televisive di tuttologi che abbondano in ogni dove. Poco importa se non si sa cosa sia davvero accaduto. La storia è di quelle strappalacrime che va subito rivenduta e veicolata per la speculazione e lo sciacallaggio dal Berizzi di turno e in ottemperanza al politically correct. Così uno sfogo adolescenziale su un social scritto tre anni prima diventa il motivo per cui il ragazzo si è suicidato: il razzismo. Magari una forma di sottile e deprecabile bullismo compiuta da coetanei su un ragazzo di un piccolo paesino del sud che ha subito il cambio e l’impatto come quello che una città come Milano può dare? Ma no. Said aveva la pelle nera per cui è il razzismo il motore di tutto. Ma la mamma e il padre adottivi smentiscono. Costretti a rilasciare dichiarazioni e a tutelare, in un momento tragico e privato, la loro immagine e quella del figlio, per una cosa fondamentale che si chiama verità. Ma il mainstream ha deciso: ad ammazzare Said è stato il razzismo. L’udienza è tolta e la sentenza è emessa: un ragazzo di colore non può avere problemi di depressione, d’amore, di nostalgia, di stanchezza, di stress e mille altri mali che affliggono il nostro tempo. Magari per un lockdown che è stato un vero e proprio confinamento lontano da casa e dagli affetti e che è pesato un po’ troppo. No! Seid è morto di discriminazione.
Quella discriminazione, al contrario, cui non si è fatto minimamente cenno nella tragica storia di Saman, sparita ormai da più di un mese e con una confessione di strangolamento dello zio che si spera faccia almeno ritrovarne il cadavere.
La colpa? La libertà di volersi integrare. Di voler magari rinunciare al velo e di decidere di chi innamorarsi. Una colpa “italiana” così grave e poco diffusa, tanto da attribuire con ipocrita disinvoltura di certa stampa “allineata”, l’etichetta di “ragazza ribelle” alla giovane e sfortunata Saman. E poco importa se la ragazza sia stata, piuttosto, costretta a fuggire dalla propria famiglia. Un nucleo familiare numeroso e composito che pare l’abbia invitata a ritornare ingannandola. O, forse, il ritorno a casa sia dovuto al recupero dei documenti per un allontanamento definitivo. Qui la famiglia non parla con i giornalisti, non cerca di dare spiegazioni in merito. Fugge all’estero piuttosto. Non prima di essersi riunita in una sorta di “consiglio” per decretare la condanna a morte della diciottenne, in nome dell’islamico Corano. Elemento fin troppo evidente, fatto passare sottogamba. Una autentica e ipocrita mistificazione islamista taciuta e silenziata ad arte.
Qualche timido tentativo di derubricare l’accaduto in femminicidio, che è quanto di più spregevole si possa attribuire ad una donna, equiparata ad ogni costo all’uomo, mai (e mai più) complementare ad esso e per la quale non esiste demarcazione che differenzia maggiormente la donna dal resto del genere umano come il termine femminicidio. Quasi che l’omicidio non includesse la donna come appartenente alla specie umana. Per Saman non ci sono accuse di razzismo all’Islam, alla famiglia, alla mancata integrazione di chi vive nella nostra stessa terra, ma pretende che questa Italia sia solo un’appendice dell’islamico Pakistan o della più sperduta provenienza geografica.
Nessuna accusa e nemmeno una presa di posizione da parte dell’intero “quarto potere”. Nessun politico inginocchiato, non una femminista che rivendica diritti e libertà per le donne. Solo tanto silenzio. Eloquente. Complice. Omertoso. Che nemmeno la peggiore Sicilia dei tempi d’oro di Corleone.
Non è forse questo un caso di razzismo al contrario? Non è forse questo un caso di mancata integrazione verso il Paese ospitante? Non è forse questa una mancanza di rispetto verso l’Italia e gli Italiani, terra e gente che ha offerto ospitalità e integrazione senza nulla pretendere e che pare non essere mai abbastanza. Tanto da essere rifiutata nel modello educativo, formativo, di vita?
Giammai qualcuno che si indignasse al contrario, in difesa del bianco considerato suprematista a prescindere. Colpevole pure di respirare e di vivere, persino di essere nato e mai e poi mai vittima di una qualche anomala forma di discriminazione, di episodi di razzismo al contrario che dovrebbero pesare il doppio se commessi da chi abbiamo accolto. E invece no: lo stereotipo imposto vuole che il razzismo abbia la faccia nera, più nera possibile. Magari con lo sguardo trafelato ma soddisfatto di chi arriva col barcone stringendo in mano il telefonino cellulare di ultima generazione. E ciò nonostante é ritenuto “vittima” a priori. Coccolato e osannato da una finta e ipocrita politica dell’accoglienza che non garantisce neanche la sicurezza e una sopravvivenza decorosa per tanti disperati abbandonati a se stessi nelle periferie-ghetto delle nostre città. Con buona pace dei “buonisti” di turno!