Spente le luci, smontati i palchi e le passerelle, ammainati gli striscioni e le bandiere a Scampia ripiomba il silenzio, rotto solo da un altro pezzo di un’altra vela rotta dal rumore delle ruspe che, dopo la polvere e il fumo, creano calcinacci.
Per quaranta giorni i calcinacci abiteranno ancora quella Scampia più volte distrutta, poi saranno portati via. Per sempre. Come i suoi abitanti, già sfollati a seguito del sisma del 1980. Si salverà solo la vela Azzurra che sarà riqualificata per fare spazio ad uffici della Città Metropolitana che sarà popolata ancora da quella gente che, senza bonifiche e salvataggi di sorta, a Scampia è riuscita a vivere e a sopravvivere e a testimoniare che esiste anche un altro volto di quella divenuta la piazza di spaccio più grande d’Europa, dove i bambini giocano a fare i boss sui tetti dei “mostri di cemento”, dove quelle che dovevano essere un giardino verticale con richiamo ai caratteristici vicoli di Napoli sono diventate un magazzino della droga.
Le musiche e le danze liberatorie offerte da quelli che – cresciuti lì – ce l’hanno comunque fatta sono state precedute dalle parole della politica, da quella politica che non ha atteso la fine della festa per andare via e che tornerà tra quaranta giorni. Quella politica andata via troppo presto da Scampia e che, grazie proprio alla sua presenza intermittente, ha lasciato che lì si radicasse l’antistato. Ha lasciato orfani e con poche guide quei “figli delle vele” a cui si fa visita una tantum, ogni cinque anni, ogni volta che un’altra morte “rumorosa” si impossessa di loro.
Loro che guardano con occhi lucidi di gioia mista a rabbia quel palazzone come fosse un mostro malefico, assistono ancora increduli alla distruzione di quell’ammasso di ferro e cemento che fino a poco prima era stata la loro casa, quel rifugio inerme e protettivo che viene giù a sporcare le loro magliette e i loro cappellini marchiati “NARCOS”. L’illusione permeata e cucita addosso.
Allora distruggere i palazzoni divenuti simbolo di degrado e illegalità diventa un poco come parlare con i muri, penzolanti, inzuppati e che hanno bisogno di essere puntellati, sostenuti, ricostruiti se non si vuol ridurre tutto in un polverone che, opportunamente e opportunisticamente diradato, viene solo guardato dissolversi, perdersi, scomparire.
Tra quaranta giorni non ci sarà più ferro, né cemento, né amianto, ma rischia di non esserci nemmeno traccia di quella ricostruzione più volte annunciata e che non è mai arrivata, una ricostruzione, una bonifica e una rigenerazione troppe volte promessa già ad altre aree, ad altre scampìe di Napoli, ormai spazi immensi ed abbandonati all’inutilità e alla vergogna.
Quell’ammasso di ferro e cemento che, ora come allora, potrebbero fruttare danaro, sinonimo di business, con la sola certezza dell’esistenza di un Giuda traditore pronto a svendere prima che a vendere i suoi fratelli. E non per la (loro) ricostruzione.
Tra quaranta giorni anche l’ultimo mattone dovrebbe essersi polverizzato sperando che con esso non porti via anche i sogni e i desideri, i sacrifici e i progetti per poter finalmente far volare alto questa Napoli periferica, finalmente riscattata e rinata, dopo tanto doloroso e immeritato calvario.
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