Solo qualche giorno fa, riflettevamo proprio sulle colonne di questo giornale su cosa sia diventata Napoli. E su cosa (non) abbia fatto la propria classe dirigente inetta e autoreferenziale per aver costretto questa città all’attuale decadenza. Se a questi politici stia bene che Napoli ormai sia solo “la pizza, la pizza, la pizza e niente cchiù”. Ed ecco che, manco lo sapessimo, arriva l’annuncio dell’amministrazione comunale che ci dà prontamente ragione.
Palazzo San Giacomo, per l’occasione “enjoy” – deve essere l’influenza del sindaco di Avellino Gianluca Festa – annuncia cacchio cacchio e tomo tomo che ospiterà da marzo prossimo e per la durata di tre mesi l’installazione dell’opera dell’artista albanese Milot e denominata “Key of Montevergine”.
La chiave di Montevergine è una installazione artistica realizzata in ferro dalle enormi dimensioni (25 metri × 7 in pianta e raggiunge l’altezza di 15) realizzata dall’artista Milot, Alfred Mirashi all’anagrafe, subito ribattezzato dai giornali italiani quale italo-albanese. Ma, in realtà, egli è orgogliosissimo di essere albanese e lo si vede già dal nome. Milot è infatti la città di origine – tanto da tornare spesso in Albania, da dove partì su un barcone negli anni ’90 per approdare sulle coste pugliesi. Ma è in Campania e, precisamente a cavallo tra Sannio e Irpinia, nel comune di Cervinara, che trovò chi fu pronto ad accoglierlo e, riconosciute le inclinazioni artistiche, a pagargli gli studi all’Accademia di Brera.
La realizzazione di Milot, il cui prototipo è ospitato proprio nel comune di Cervinara (AV), è pregna di significato, per così dire, “autobiografico”: è un invito ad utilizzare la chiave del dialogo e dell’accoglienza, è una chiave che serve ad aprire tutte le porte e che, una volta aperte, deve essere ripiegata su sé stessa, in modo da non poter essere riutilizzata. Magari per chiudere quelle stesse porte. Occasione da non farsi sfuggire e significato da reinterpretare, è proprio il caso di dirlo, in “chiave” politica, tristemente attuale. Retoricamente vuota e ipocritamente buonista da tutti quelli che nella politica ci vedono solo il “mezzo” per poter raggiungere i propri scopi. Napoli capofila. Non è certo da discutere sui gusti, come saggiamente ci hanno insegnato i Latini, ma qualche dubbio viene proprio circa la collocazione, circa la location tanto per sentirsi più international, dell’opera: Piazza Mercato, il quartiere più storico di Napoli. Innanzitutto perché questa amministrazione non è certo una mosca bianca nell’iter consumistico-progressista globalizzato del “mercato” che affligge una certa politica e, poi, perché Napoli ha già dato numerosissime volte dimostrazione di essere una “città d’amore”, per dirla col napoletanissimo Luciano De Crescenzo: vogliamo forse ricordare gli alloggi IRO allestiti a Capodimonte per ospitare i profughi istriano-giuliano-dalmati?; non certo una città in cui “anche un vicino di casa è un lontano di casa” parafrasando i temi che il nordico maestro elementare Marco Tullio Sperelli assegnava agli scugnizzi di “Io speriamo che me la cavo”. È, inoltre, “marchio” riconosciuto nel mondo intero l’animo generoso dei napoletani, al pari della pizza, degli spaghetti e della mozzarella. Forse, pure in difetto se da Piazza Mercato ci spostiamo poco più in là, nel Lavinaio o nel Vasto, per vedere quanto siamo stati generosi nei confronti di immigrati, extra comunitari e pure clandestini consegnando interi quartieri al degrado, all’insicurezza e alla delinquenza.
Ma Piazza Mercato, dicono gli addetti ai lavori, è stata scelta perché chiunque arrivi in città possa godere di questo potente messaggio. Probabilmente un tentativo di bissare la già mal riuscita pubblicità per la scultura permanente by Gigino de Magistris “Nessuno escluso”, la rotonda in ferro che si trova sulle teste di chi entra in città da via Vespucci.
E pensare che non questa amministrazione e nemmeno quella precedente e nemmeno quella precedente ancora sembra ricordare che proprio a Piazza Mercato fu ritrovata l’erma di Partenope, un monumento funerario così grande – racconta nientemeno che Strabone – che accoglieva ogni persona che arrivasse a Napoli dal mare. In realtà il monumento doveva essere collocato tra Palazzo Reale e il Maschio Angioino, ovvero nel porto utilizzato da Partenope, l’insediamento sorto nei pressi di Pizzofalcone, e successivamente dalla Nea Polis, la nuova città appunto, ma quando i napoletani ritrovarono l’erma decisero che quella era “‘a capa d”a sirena”, la testa di Napoli.
Piazza Mercato (Campo Moricini, in illo tempore) ospita anche il “cippo dei cuoiai”, dove fu probabilmente decapitato appena sedicenne Corradino di Svevia per mano di un boia-macellaio o da un cavaliere francese con la sua stessa spada. Il tutto incorniciato da una navata trecentesca della chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato, manco a dirlo, oggi chiusa al pubblico. Chapeau per le amministrazioni! Sulla stessa piazza, all’interno della Basilica del Carmine, custodito in un monumento funebre costruito in marmo foggiato dallo scultore neoclassico, il danese Bertel Thorvaldelsen su commissione dell’imperatore Massimiliano II re di Baviera, riposa anche il corpo del ragazzo, dove la leggenda vuole che i monaci nascosero le spoglie dell’ultimo degli Hohenstaufen per impedire il trasporto in Germania, per volere di Hitler e, dove da 754 anni, si celebra una messa in suffragio.
Ci si potrebbe dilungare a lungo su quanto Napoli di bello e di storico abbia da offrire, ma, invece, ci tocca assistere all’ospitata della chiave da parte di questa “chiavica” – nel senso buono, eh! – di amministratori che addirittura sfidano il parere degli esperti in materia della Soprintendenza e del Ministero dei Beni Culturali. Ebbene sì, perché sappiamo che Cervinara, Mercogliano e Avellino in quanto a visibilità non sono certo Napoli, ma è altrettanto bene sapere che la Chiave della pace, del dialogo e dell’accoglienza non trova pace perché non ha trovato accoglienza: doveva, infatti, essere installata all’ingresso della città di Avellino e più precisamente nella rotonda all’uscita del Casello autostradale di Avellino Ovest della A16, ma il Ministero della Cultura, tramite la Direzione generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Avellino e Salerno, rifilò una sonora bocciatura al progetto. Non venivano certo messe in discussione i valori dell’opera (“se non per le notevoli dimensioni”), bensì «il suo rapporto e il relativo riferimento, dal punto di vista paesaggistico, all’ambiente destinato ad ospitarlo» perché «non dialoga, ma interferisce e predomina sul paesaggio che lo ospita e lo circonda», si legge proprio nella relazione. Non si ritenne congrua la collocazione in uno spazio aperto come lo svincolo autostradale di Mercogliano perché avrebbe annullato le bellezze paesaggistiche, lasciando irrisolte le altre criticità, chissà come si fa a ritenere congrua l’installazione in una piazza che trasuda storia e arte da ogni mattone. D’altronde il Sindaco di Mercogliano aveva promesso che si sarebbe provveduto alla ricollocazione della scultura anche in altri contesti. E la politica è sinonimo di promessa. Solo che ogni promessa è debito. Promessa da parte del D’Alessio e debito da parte di Napoli con la propria storia, con la propria cultura e con la propria identità. La chiave in piazza non durerà che tre mesi, ma le chiaviche a Napoli… purtroppo dureranno un po’ di più!
Palazzo San Giacomo, per l’occasione “enjoy” – deve essere l’influenza del sindaco di Avellino Gianluca Festa – annuncia cacchio cacchio e tomo tomo che ospiterà da marzo prossimo e per la durata di tre mesi l’installazione dell’opera dell’artista albanese Milot e denominata “Key of Montevergine”.
La chiave di Montevergine è una installazione artistica realizzata in ferro dalle enormi dimensioni (25 metri × 7 in pianta e raggiunge l’altezza di 15) realizzata dall’artista Milot, Alfred Mirashi all’anagrafe, subito ribattezzato dai giornali italiani quale italo-albanese. Ma, in realtà, egli è orgogliosissimo di essere albanese e lo si vede già dal nome. Milot è infatti la città di origine – tanto da tornare spesso in Albania, da dove partì su un barcone negli anni ’90 per approdare sulle coste pugliesi. Ma è in Campania e, precisamente a cavallo tra Sannio e Irpinia, nel comune di Cervinara, che trovò chi fu pronto ad accoglierlo e, riconosciute le inclinazioni artistiche, a pagargli gli studi all’Accademia di Brera.
La realizzazione di Milot, il cui prototipo è ospitato proprio nel comune di Cervinara (AV), è pregna di significato, per così dire, “autobiografico”: è un invito ad utilizzare la chiave del dialogo e dell’accoglienza, è una chiave che serve ad aprire tutte le porte e che, una volta aperte, deve essere ripiegata su sé stessa, in modo da non poter essere riutilizzata. Magari per chiudere quelle stesse porte. Occasione da non farsi sfuggire e significato da reinterpretare, è proprio il caso di dirlo, in “chiave” politica, tristemente attuale. Retoricamente vuota e ipocritamente buonista da tutti quelli che nella politica ci vedono solo il “mezzo” per poter raggiungere i propri scopi. Napoli capofila. Non è certo da discutere sui gusti, come saggiamente ci hanno insegnato i Latini, ma qualche dubbio viene proprio circa la collocazione, circa la location tanto per sentirsi più international, dell’opera: Piazza Mercato, il quartiere più storico di Napoli. Innanzitutto perché questa amministrazione non è certo una mosca bianca nell’iter consumistico-progressista globalizzato del “mercato” che affligge una certa politica e, poi, perché Napoli ha già dato numerosissime volte dimostrazione di essere una “città d’amore”, per dirla col napoletanissimo Luciano De Crescenzo: vogliamo forse ricordare gli alloggi IRO allestiti a Capodimonte per ospitare i profughi istriano-giuliano-dalmati?; non certo una città in cui “anche un vicino di casa è un lontano di casa” parafrasando i temi che il nordico maestro elementare Marco Tullio Sperelli assegnava agli scugnizzi di “Io speriamo che me la cavo”. È, inoltre, “marchio” riconosciuto nel mondo intero l’animo generoso dei napoletani, al pari della pizza, degli spaghetti e della mozzarella. Forse, pure in difetto se da Piazza Mercato ci spostiamo poco più in là, nel Lavinaio o nel Vasto, per vedere quanto siamo stati generosi nei confronti di immigrati, extra comunitari e pure clandestini consegnando interi quartieri al degrado, all’insicurezza e alla delinquenza.
Ma Piazza Mercato, dicono gli addetti ai lavori, è stata scelta perché chiunque arrivi in città possa godere di questo potente messaggio. Probabilmente un tentativo di bissare la già mal riuscita pubblicità per la scultura permanente by Gigino de Magistris “Nessuno escluso”, la rotonda in ferro che si trova sulle teste di chi entra in città da via Vespucci.
E pensare che non questa amministrazione e nemmeno quella precedente e nemmeno quella precedente ancora sembra ricordare che proprio a Piazza Mercato fu ritrovata l’erma di Partenope, un monumento funerario così grande – racconta nientemeno che Strabone – che accoglieva ogni persona che arrivasse a Napoli dal mare. In realtà il monumento doveva essere collocato tra Palazzo Reale e il Maschio Angioino, ovvero nel porto utilizzato da Partenope, l’insediamento sorto nei pressi di Pizzofalcone, e successivamente dalla Nea Polis, la nuova città appunto, ma quando i napoletani ritrovarono l’erma decisero che quella era “‘a capa d”a sirena”, la testa di Napoli.
Piazza Mercato (Campo Moricini, in illo tempore) ospita anche il “cippo dei cuoiai”, dove fu probabilmente decapitato appena sedicenne Corradino di Svevia per mano di un boia-macellaio o da un cavaliere francese con la sua stessa spada. Il tutto incorniciato da una navata trecentesca della chiesa di Santa Croce e Purgatorio al Mercato, manco a dirlo, oggi chiusa al pubblico. Chapeau per le amministrazioni! Sulla stessa piazza, all’interno della Basilica del Carmine, custodito in un monumento funebre costruito in marmo foggiato dallo scultore neoclassico, il danese Bertel Thorvaldelsen su commissione dell’imperatore Massimiliano II re di Baviera, riposa anche il corpo del ragazzo, dove la leggenda vuole che i monaci nascosero le spoglie dell’ultimo degli Hohenstaufen per impedire il trasporto in Germania, per volere di Hitler e, dove da 754 anni, si celebra una messa in suffragio.
Ci si potrebbe dilungare a lungo su quanto Napoli di bello e di storico abbia da offrire, ma, invece, ci tocca assistere all’ospitata della chiave da parte di questa “chiavica” – nel senso buono, eh! – di amministratori che addirittura sfidano il parere degli esperti in materia della Soprintendenza e del Ministero dei Beni Culturali. Ebbene sì, perché sappiamo che Cervinara, Mercogliano e Avellino in quanto a visibilità non sono certo Napoli, ma è altrettanto bene sapere che la Chiave della pace, del dialogo e dell’accoglienza non trova pace perché non ha trovato accoglienza: doveva, infatti, essere installata all’ingresso della città di Avellino e più precisamente nella rotonda all’uscita del Casello autostradale di Avellino Ovest della A16, ma il Ministero della Cultura, tramite la Direzione generale Archeologia Belle Arti e Paesaggio di Avellino e Salerno, rifilò una sonora bocciatura al progetto. Non venivano certo messe in discussione i valori dell’opera (“se non per le notevoli dimensioni”), bensì «il suo rapporto e il relativo riferimento, dal punto di vista paesaggistico, all’ambiente destinato ad ospitarlo» perché «non dialoga, ma interferisce e predomina sul paesaggio che lo ospita e lo circonda», si legge proprio nella relazione. Non si ritenne congrua la collocazione in uno spazio aperto come lo svincolo autostradale di Mercogliano perché avrebbe annullato le bellezze paesaggistiche, lasciando irrisolte le altre criticità, chissà come si fa a ritenere congrua l’installazione in una piazza che trasuda storia e arte da ogni mattone. D’altronde il Sindaco di Mercogliano aveva promesso che si sarebbe provveduto alla ricollocazione della scultura anche in altri contesti. E la politica è sinonimo di promessa. Solo che ogni promessa è debito. Promessa da parte del D’Alessio e debito da parte di Napoli con la propria storia, con la propria cultura e con la propria identità. La chiave in piazza non durerà che tre mesi, ma le chiaviche a Napoli… purtroppo dureranno un po’ di più!