Mo basta! Ma che razza di (mal)trattamento viene riservato alla città di Napoli su tutti i fronti, in ogni campo, a qualsiasi livello, ormai dipinta irrimediabilmente solo nel suo stato peggiore? Ed esiste pure una corsa, con tanto di competizione in cui coinvolgere la popolazione, per andare a conquistare lo scranno più alto di ogni Palazzo, da dove dare il proprio contributo alla distruzione della città, per cancellare la cultura della napoletanità, per minare inevitabilmente l’identità partenopea. Quella identità che pure è rimasta immutata nel tempo, nella lingua, così come nella struttura della città che, ancora oggi, continua ad affascinare e ad esercitare quell’attrattiva unica subìta da spagnoli, da francesi, da italiani e da ognuno che sia giunto alle falde del Vesuvio per dominare, finendo irrimediabilmente con l’essere dominato. Quel Vesuvio che sbuffa ritratto in quelle cartoline che, per fortuna, nei tabacchini non si vendono più, altrimenti fotograferebbero il (paradossale) divieto di fumo – pardon, di svapo – non del Vesuvio, in una terra dei fuochi dove il rischio cancro, anche infantile, con conseguente mortalità, è altissimo, quasi certo. E non per tabagismo.
Quella città ordinata nel suo disordine che ha conservato, come pochissime altre, la sua struttura originaria: quel reticolo di cardi e decumani che “settorializzava” ogni settore: ‘o burevo, il Borgo di Sant’Antonio per il mercato e quello degli Orefici per i preziosi, la zona del Duomo per gli abiti da cerimonia, le “mura” (sotto e ‘ngoppa) per il pesce fresco, San Gregorio Armeno che non ha bisogno certo di presentazioni, San Sebastiano con i più disparati strumenti musicali, fino ad arrivare a Port’Alba, straripante di ogni genere di libro, scolastico e no.
Centro storico oggi ridotto a tristi serrande abbassate, ad una sorta di “buchi appilati” dall’ennesimo kebabbaro fuoriuscito che sul web fa a gara con la miliardesima vera pizzeria aperta, con la vecchia frittatina nuova di zecca o col pasticcere autoproclamatosi Re della frolla quando nella Napoli vera(ce) – quando c’era vera Napoli – questa manco rientra(va) fra le sfogliatelle.
Per i fortunati che nella metropoli riescono a (soprav)vivere, invece, pare non ci sia altra strada che la povertà, la delinquenza, la faida, la paranza dei bambini, per dirla con un “best seller” ultimamente in voga. Questo è ciò che dice e scrive l’intellighenzia autoctona – una volta alimentata da gente del calibro di Goethe e Leopardi – che ha monopolizzato i salotti esportando il messaggio in tivvù e su ogni altra sorta di diavoleria, decrescenziana “prolunga” di quei libri che nessuno legge più: in principio fu Saviano, oggi la voce unica è stata monopolizzata da tal De Giovanni che propaganda un’asfissiante Napoli del Ventennio, dove realtà e finzione (persino ultraterrena) s’intrecciano (e si compensano), fino al giorno d’oggi quando un’intera città attende “solo” un’assistente sociale, una Wonder Woman di cui tutti a Napoli hanno un incessante bisogno per tentare di risolvere i mille problemi che solo la protagonista sembra non avere. Se non qualche filarino che non porta ad alcuna stabilità. In ottemperanza alle regole vigenti del mondo moderno, tanto per rendere umana pure lei. Passando per l’amica geniale che offre uno spaccato del mondo “femminista”, di mancate libertà e soprusi, anche scolastici, da una società (maschilista? Patriarcale?) che è più finta dell’opera stessa.
Si dirà, ma questa è la “radice” eduardiana che, per quanto capolavoro e figlia del proprio tempo che non è più il nostro, narra solo di miserie, sotterfugi e furberie. Che ci sono ovunque, o, se vogliamo, non ci sono solo a Napoli. E continuano per questa via e questi lidi anche i suoi figli più fortunati, tanto per citare apprezzati showman poliedrici – cantante, attore, cabarettista, ballerino – che nelle ultime comparsate si riducono a patetici cantori dei mille guai e della miseria di “quand’era piccirillo”. E, per fortuna (ma non di Napoli), non è nemmeno il solo volto noto a prestarsi al ruolo di nuova prefica che fa tanto Napoli Milionaria!…
Ma lo “sputtanapoli” è un gioco al rialzo che investe ogni campo. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, il mancato apprezzamento o, meglio, il rifiuto “istituzionale” dell’artista Domenico Sepe e della sua opera che ritrae divinamente Maradona, omaggio a tutti i napoletani (e no) in occasione della morte del campione argentino. Lo stesso Sepe – nemo propheta in Patria – apprezzato altrove e chiamato in questi stessi giorni a Vicenza per omaggiare – ironia della sorte – proprio con una statua un altro campione del calcio: Paolo Rossi. Ma se cancellazione e distruzione deve essere, non ci si può mica limitare “solo” – Comune in primis – nel rifiutare la statua di Maradona per la città? Il popolo del calcio, che a Napoli è la città tutta e pure oltre, che vive di una “identità sportiva”, ri-conquistata proprio dal Pibe de oro e mai scalfita nel corso dei tanti anni, deve essere oggetto di attenzione speciale, proprio in quest’anno di fortuna e meriti sportivi tanto attesi: così a tifare la squadra della propria città, nell’impianto sportivo di Fuorigrotta – “paraculamente” subito intitolato al D10S – si è ammessi soltanto senza bandiere, senza trombe, senza striscioni, senza tamburi. La bandiera è l’emblema dell’identità, non solo sportiva, e il tamburo, gli striscioni non sono che caratteristiche del proprio essere! Che, semplicemente, non “è” più. Che stadio è uno stadio anonimo, asettico, insipido, senza colori, né canti? Il Maradona di Napoli! Ma soprattutto qual è la logica di tutto ciò, visto che nessun regolamento lo prevede, come accade in tutti gli altri stadi d’Italia? Ma dove altro in Italia accade che un pugile apra una libreria che diventa una casa editrice che poi è costretto a chiudere senza che le istituzioni muovano anche solo una falangetta di uno delle dieci dita delle due mani? Quella città abbandonata a sé stessa, che si (auto)degrada perché non la si ama, in cui un’altra palestra che diventa un avamposto di legalità, che strappa i giovani dalla (cattiva) strada è costretta a chiudere perché il Comune, tanta croce e ben poco delizia della sua gente, dice di avanzare dei soldi da quella palestra che ha sempre pagato quanto pattuito un quarto di secolo fa. Ben 23 anni in cui il Vicolo Sottomonte ai Ventaglieri di Montesanto è anche un vicolo di sport, oltre che di armi e di droga. Dove la retta per lo sport se la può permettere solo un giovane su dieci, ma c’è posto per tutti in quella palestra che ha inventato campioni della portata di Oliva e Cotena. Insomma non proprio la zona della sinistra Ztl cui appartiene il Sindaco che non riuscirà – eguagliando i suoi infelici e sconfitti predecessori – nel far morire Napoli perché “il napoletano se fa sicco ma non more”. Perché Napoli è l’arte di arrangiarsi e di trovare sempre una strada, è il panaro solidale e il caffè sospeso senza sapere se esiste qualcuno che non se lo può permettere. Perché Napoli è città del sole e del mare, dove “prendi aria buona ‘a parte ‘e Caracciolo, se ti senti poco bene”, per dirla con Eduardo, perché anche ciò che ti dovrebbe curare ormai finisce per ammazzarti, grazie al miracolo di aver trasformato la sanità in santità operato da quell'”uomo e galantuomo” di Vincenzo De Luca, presidente della Regione e commissario alla sanità. Quella stessa via Caracciolo dove è sorto l’Hotel Continental, su una delle cinque fonti d’acqua della città: l’acqua ferrata, di Telese, zuffregna, del Serino e della Madonna. La famosissima “banca ‘ell’ acqua”. Insomma, Napoli come re Mida che avrebbe fatto fortuna pure se avesse fatto acqua da tutte le parti. Che con le sue suggestive piazze e i suoi regali palazzi, numerosissimi edifici di culto (chiese, cattedrali, edicole) e complessi monumentali, è stata definita dalla BBC come “la città italiana con troppa storia da gestire”: forse per questo una certa sinistra dem-progressista “usa” sfoltire, andando a cozzare, però, con il femminismo “tossico” che vanno propagandando? D’altronde Napoli è femmina e, come tutte ‘e belle femmene, è molto invidiata: forse tutto questo scempio è solo frutto di tanta invidia?
Quella città ordinata nel suo disordine che ha conservato, come pochissime altre, la sua struttura originaria: quel reticolo di cardi e decumani che “settorializzava” ogni settore: ‘o burevo, il Borgo di Sant’Antonio per il mercato e quello degli Orefici per i preziosi, la zona del Duomo per gli abiti da cerimonia, le “mura” (sotto e ‘ngoppa) per il pesce fresco, San Gregorio Armeno che non ha bisogno certo di presentazioni, San Sebastiano con i più disparati strumenti musicali, fino ad arrivare a Port’Alba, straripante di ogni genere di libro, scolastico e no.
Centro storico oggi ridotto a tristi serrande abbassate, ad una sorta di “buchi appilati” dall’ennesimo kebabbaro fuoriuscito che sul web fa a gara con la miliardesima vera pizzeria aperta, con la vecchia frittatina nuova di zecca o col pasticcere autoproclamatosi Re della frolla quando nella Napoli vera(ce) – quando c’era vera Napoli – questa manco rientra(va) fra le sfogliatelle.
Per i fortunati che nella metropoli riescono a (soprav)vivere, invece, pare non ci sia altra strada che la povertà, la delinquenza, la faida, la paranza dei bambini, per dirla con un “best seller” ultimamente in voga. Questo è ciò che dice e scrive l’intellighenzia autoctona – una volta alimentata da gente del calibro di Goethe e Leopardi – che ha monopolizzato i salotti esportando il messaggio in tivvù e su ogni altra sorta di diavoleria, decrescenziana “prolunga” di quei libri che nessuno legge più: in principio fu Saviano, oggi la voce unica è stata monopolizzata da tal De Giovanni che propaganda un’asfissiante Napoli del Ventennio, dove realtà e finzione (persino ultraterrena) s’intrecciano (e si compensano), fino al giorno d’oggi quando un’intera città attende “solo” un’assistente sociale, una Wonder Woman di cui tutti a Napoli hanno un incessante bisogno per tentare di risolvere i mille problemi che solo la protagonista sembra non avere. Se non qualche filarino che non porta ad alcuna stabilità. In ottemperanza alle regole vigenti del mondo moderno, tanto per rendere umana pure lei. Passando per l’amica geniale che offre uno spaccato del mondo “femminista”, di mancate libertà e soprusi, anche scolastici, da una società (maschilista? Patriarcale?) che è più finta dell’opera stessa.
Si dirà, ma questa è la “radice” eduardiana che, per quanto capolavoro e figlia del proprio tempo che non è più il nostro, narra solo di miserie, sotterfugi e furberie. Che ci sono ovunque, o, se vogliamo, non ci sono solo a Napoli. E continuano per questa via e questi lidi anche i suoi figli più fortunati, tanto per citare apprezzati showman poliedrici – cantante, attore, cabarettista, ballerino – che nelle ultime comparsate si riducono a patetici cantori dei mille guai e della miseria di “quand’era piccirillo”. E, per fortuna (ma non di Napoli), non è nemmeno il solo volto noto a prestarsi al ruolo di nuova prefica che fa tanto Napoli Milionaria!…
Ma lo “sputtanapoli” è un gioco al rialzo che investe ogni campo. Ultimo, ma solo in ordine cronologico, il mancato apprezzamento o, meglio, il rifiuto “istituzionale” dell’artista Domenico Sepe e della sua opera che ritrae divinamente Maradona, omaggio a tutti i napoletani (e no) in occasione della morte del campione argentino. Lo stesso Sepe – nemo propheta in Patria – apprezzato altrove e chiamato in questi stessi giorni a Vicenza per omaggiare – ironia della sorte – proprio con una statua un altro campione del calcio: Paolo Rossi. Ma se cancellazione e distruzione deve essere, non ci si può mica limitare “solo” – Comune in primis – nel rifiutare la statua di Maradona per la città? Il popolo del calcio, che a Napoli è la città tutta e pure oltre, che vive di una “identità sportiva”, ri-conquistata proprio dal Pibe de oro e mai scalfita nel corso dei tanti anni, deve essere oggetto di attenzione speciale, proprio in quest’anno di fortuna e meriti sportivi tanto attesi: così a tifare la squadra della propria città, nell’impianto sportivo di Fuorigrotta – “paraculamente” subito intitolato al D10S – si è ammessi soltanto senza bandiere, senza trombe, senza striscioni, senza tamburi. La bandiera è l’emblema dell’identità, non solo sportiva, e il tamburo, gli striscioni non sono che caratteristiche del proprio essere! Che, semplicemente, non “è” più. Che stadio è uno stadio anonimo, asettico, insipido, senza colori, né canti? Il Maradona di Napoli! Ma soprattutto qual è la logica di tutto ciò, visto che nessun regolamento lo prevede, come accade in tutti gli altri stadi d’Italia? Ma dove altro in Italia accade che un pugile apra una libreria che diventa una casa editrice che poi è costretto a chiudere senza che le istituzioni muovano anche solo una falangetta di uno delle dieci dita delle due mani? Quella città abbandonata a sé stessa, che si (auto)degrada perché non la si ama, in cui un’altra palestra che diventa un avamposto di legalità, che strappa i giovani dalla (cattiva) strada è costretta a chiudere perché il Comune, tanta croce e ben poco delizia della sua gente, dice di avanzare dei soldi da quella palestra che ha sempre pagato quanto pattuito un quarto di secolo fa. Ben 23 anni in cui il Vicolo Sottomonte ai Ventaglieri di Montesanto è anche un vicolo di sport, oltre che di armi e di droga. Dove la retta per lo sport se la può permettere solo un giovane su dieci, ma c’è posto per tutti in quella palestra che ha inventato campioni della portata di Oliva e Cotena. Insomma non proprio la zona della sinistra Ztl cui appartiene il Sindaco che non riuscirà – eguagliando i suoi infelici e sconfitti predecessori – nel far morire Napoli perché “il napoletano se fa sicco ma non more”. Perché Napoli è l’arte di arrangiarsi e di trovare sempre una strada, è il panaro solidale e il caffè sospeso senza sapere se esiste qualcuno che non se lo può permettere. Perché Napoli è città del sole e del mare, dove “prendi aria buona ‘a parte ‘e Caracciolo, se ti senti poco bene”, per dirla con Eduardo, perché anche ciò che ti dovrebbe curare ormai finisce per ammazzarti, grazie al miracolo di aver trasformato la sanità in santità operato da quell'”uomo e galantuomo” di Vincenzo De Luca, presidente della Regione e commissario alla sanità. Quella stessa via Caracciolo dove è sorto l’Hotel Continental, su una delle cinque fonti d’acqua della città: l’acqua ferrata, di Telese, zuffregna, del Serino e della Madonna. La famosissima “banca ‘ell’ acqua”. Insomma, Napoli come re Mida che avrebbe fatto fortuna pure se avesse fatto acqua da tutte le parti. Che con le sue suggestive piazze e i suoi regali palazzi, numerosissimi edifici di culto (chiese, cattedrali, edicole) e complessi monumentali, è stata definita dalla BBC come “la città italiana con troppa storia da gestire”: forse per questo una certa sinistra dem-progressista “usa” sfoltire, andando a cozzare, però, con il femminismo “tossico” che vanno propagandando? D’altronde Napoli è femmina e, come tutte ‘e belle femmene, è molto invidiata: forse tutto questo scempio è solo frutto di tanta invidia?