Sulla sua tomba un biglietto che riporta la dicitura “sono democristiano” pare sia stata l’ultima volontà di Luigi Ciriaco De Mita.
Sì è spento la mattina del 26 maggio all’età di 94 anni presso la clinica Villa dei Pini di Avellino, dove era stato ricoverato in seguito a delle complicanze per la rottura del femore, solo l’ultimo degli acciacchi che, ormai, affliggevano il politico di Nusco. Quasi centenario e ancora “democristianamente” presente in politica, da Sindaco del paese natale fino alle sue “mani in pasta” alle regionali con lo storico, scellerato patto di Marano con De Luca – la notte prima del voto – e che ha portato alla morte dei suoi territori, quelli interni, ma anche nazionali con la mancata elezione degli “eredi”.
Il fenomeno De Mita è ancora troppo vicino storicamente per poterne tracciare con esattezza un profilo politico-istituzionale, ma poiché è vissuto sulla cresta dell’onda per quarant’anni e oltre non mancano le testimonianze – almeno di cronaca – per un ritratto, o forse, una caricatura a dir poco irriverente.
Ciriachino, come era affettuosamente chiamato dai compaesani dell’Alta Irpinia, si percepiva quasi come un unto – a.c. che sta per ante Covid – del Signore, una manna dal cielo e, si sa, una manna lava l’altra. Sempre democristianamente inteso.
7 volte segretario della Democrazia cristiana e un anno da Presidente del Consiglio dei ministri. Un uomo così zelante da non lasciare niente per nessuno, tanto che questi suoi doppi incarichi, quasi unici nella storia della prima repubblica, lasciavano il malcontento e l’amaro in bocca – asciutta – a tanti.
Proprio come con Vincenzino De Luca, Ciriachino aveva già vissuto un odi et amo, un rapporto stile amore/odio con politici di ben altra caratura, come ad esempio quello con Bettino Craxi, il cui esilio – se di esilio è giusto parlare – fu la vera fortuna del “capoclan avellinese” che finì per decidere il bello ed il cattivo tempo nell’Italia del dopo Tangentopoli, dove ha coronato 11 primavere alla Camera e un paio anche a Strasburgo.
Ultimamente in calo tanto di notorietà quanto di consensi, al punto che nel Comune dal lui amministrato, dove la politica è ancora – per fortuna – un secondo lavoro, in tanti gli contestavano il fatto di convocare assemblee e consigli solo nei giorni feriali e per di più in orari diurni, ovvero quando tutti quelli che non mangiano di politica erano a lavoro – a dirla tutta, i pochi che hanno avuto la fortuna di vederlo in Comune, visto che si è dovuto muovere persino il Prefetto per intimargli di riunire la giunta ed approvare il bilancio comunale – aveva guadagnato gli onori della cronaca per un furto nella sua villa di Nusco, quando alcuni malviventi si erano introdotti in casa obbligandolo ad aprire la cassaforte e facendo razzia di contanti, oro e preziosi.
Ben meno grave dell’altra vicenda che gli si è abbattuta tra capo e collo che ha coinvolto la moglie Anna Maria Scarinzi, ex collaboratrice di un altro politico campano – il compianto Fiorentino Sullo, Dc anch’egli – e che, unitamente alle figlie di papà Simona e Floriana, due di quattro, sono state indagate dalla Procura di Avellino con l’accusa di peculato e truffa aggravata per aver malversato con la Onlus, di cui l’ex First lady è presidente, dei proventi destinati a bambini diversamente abili. Forse, la vera presa di coscienza del tramonto del politico che può essere riassunto col vecchio adagio “finché è in cima ci si inchina, quando cala lo si impala”.
Non ultimo, il sogno demitiano di perpetrare la dinastia in politica con l’elezione mancata del nipote prediletto, forse il solo cognome è stato insufficiente per Giuseppe.
De Mita, però, per tanti avellinesi, se, nel bene, è (stato) sinonimo di pane e lavoro, di piaceri e “posti fissi”, come l’occupazione – in senso di impiego – presso l’ufficio stampa quirinalizio di Sergio Mattarella per la figlia Antonia, nel male ha inevitabilmente significato la partenza per lavoro di tanti altri figli d’Irpinia.
D’altronde, De Mita in persona ha regalato all’Italia due pezzi…da 90: proprio a lui devono le loro fortune Sergio Mattarella e Romano Prodi. Un “padrino” per dirla con Montanelli che fu trascinato in Tribunale da “Sciriaco” che vide l’incasso di un milione di lire, ma l’assoluzione del giornalista che, a sua volta, si vendicò sguinzagliando un altro giornalista – Paolo Liguori – che curò un reportage a puntate da cui venne fuori un vero “sistema De Mita” in Irpinia: non si muove foglia che Ciriachino non voglia. In realtà, la diatriba di carte bollate era nata a seguito di una battuta dell’Avvocato. Gianni Agnelli, infatti, aveva detto “un tipico intellettuale della Magna Grecia” di Ciriachino da Nusco, ignorando che la Magna Grecia si estendeva solo sulle coste e non nell’entroterra famoso del parto di Marano di cui sopra, e Montanelli replicò chiedendo lumi perché non capiva cosa c’entrasse la Grecia.
In tempi di amarcord, si ricorderà anche l’abbaglio di un altro giornalista – Eugenio Scalfari – che ebbe a dire che “l’Italia con lui sarebbe diventata una opulenta Svizzera mediterranea”. Abbaglio facile e verificato a posteriori.
Di lui si ricorderanno anche altri primati che lo hanno portato ad occupare il settecentottesimo posto di assenze su 733 presenze richieste, oltre un biennio di assenze nel Comune natale: sarà per questo che i tanti concittadini, anche il 77% di chi gli ha accordato la preferenza, chiedono illuminazione pubblica serale, trasporto e mensa scolastica? Sarà il dispetto dell’anziano leader al fatto che i suoi compaesani nella “scuola di Alta formazione politica” che ha portato in paese l’intellighenzia partenopea manco il naso hanno voluto metterci?
Ma il “padrino” ha fatto anche cose buone. E non (solo) per sé: non è stato minimamente sfiorato, ad esempio, dal taglio dei vitalizi voluto dai 5 stelle – la cui funzione è stata salutare fino a che non sono arrivati al governo”, ma “ora il malato ha finito per sostituirsi al medico e impone lui la cura per tutti, leggasi per l’Italia”. In questi casi, aggiunse, “finisce che si muore”- per cui gli eredi continueranno ad incassare i 6000 euro, visti i 40 anni di attività o potranno godersi ciò che rimane dell’attico e del superattico di Via Arcione a Roma: 650 mq di vista mozzafiato sui giardini del Quirinale. Ce lo aveva in locazione quando era premier e lo ha riscattato nel 2010 con 3 milioni e mezzo anziché 8 del valore di mercato. Pare poi rivenduto a 11.
E chissà che a proposito di valore, non ricordiamo ancora un vecchio politico, oggi come non mai, nel bene e nel male, di cui si sente, se non la mancanza (di capacità di ingegnarsi), quantomeno la necessità di avere personalità di questo livello. Già il rimpiangere i protagonisti della prima repubblica è un preoccupante termometro della situazione di questa disastrata Italia. D’altronde, se aveva la concezione di cui sopra delle nuove forze – forse – politiche del Paese, non lo preoccupavano da meno quelle storiche. Il PD, il “suo” PD, in una vecchia, seppur attuale intervista, lo aveva paragonato a Garibaldi in Sicilia: “Quando stava in Sicilia, e gli dissero di ritirarsi, Garibaldi rispose: “Sì, ma dove?”. Così è il Pd. Pure se si ritira, non sa dove andare. E quando non sai dove andare, la massima velocità che riesci a raggiungere è rimanere fermo”.
Magari fossero rimasti fermi quelli che rimossero i manifesti dell’Asse De Mita-Mancino (in foto) in vista delle amministrative del capoluogo irpino del 2018: oggi avremmo apprezzato di più quell’ironia, quel sarcasmo, quell’irriverenza, quei “ragionamendi” che ricordano le logorroiche di Aldo Moro. Ben altra tempra le filippiche almirantiane, ad esempio, che attaccava il politico anche e soprattutto quando era forte, quando De Mita lavorava con tutti, proprio con tutti, per fare sì che l’MSI non fosse compreso nell’arco parlamentare. Padre, padrino e padrone di quel pentapartito, ribattezzato “larghe intese”, ma che, in realtà, vuol dire “inciucio” da sempre. E poi i miliardi arrivati e spartiti per la ricostruzione del terremoto dell’80, la benedetta ricostruzione perennemente in fieri e mai terminata – tanto che i prefabbricati sono ancora esistenti, ma pure funzionanti – lo scempio perpetrato, con la complicità dei politici locali, del vicino Sannio, il ribaltone in Regione per fare cadere la giunta Rastrelli…
Oggi il politically correct, l’ipocrisia da etichetta vuole tutti mesti, lacrime agli occhi e fazzoletti in mano. Perché la morte è una cosa seria e quando si muore magicamente si diventa buoni, bravi, capaci, onesti, assennati, scrupolosi, tutti amici di tutti.
E per verità, per giustizia, per l’interesse di tutti non si può non ricordarlo come lui stesso spesso diceva: “Chi vuol far sembrare semplice una cosa complessa, non l’ha capita”.
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