giovedì, Novembre 21, 2024
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JULIAN ASSANGE VALE TUTTI NOI !

Avrei voluto vederlo Assange in manette e catene. Avrei voluto vederlo denutrito e deperito e, tra le guardie, cercare uno sguardo familiare al processo in aula. Avrei voluto vedere su di lui i segni del carcere duro. Mica possiamo sorbirci solo il sorriso e la paffutaggine di Ilaria Salis in diretta dal tribunale! Nonostante l’anno compiuto di carcere duro non ho visto non dico una ruga profonda, ma nemmeno un malore dovuto allo stress carcerario e probabilmente provocato dal pensiero di ciò che la aspetterà, come successo proprio ad Assange. Ma niente. Assange non si è nemmeno manifestato in aula. Per ragioni di salute, dice il suo avvocato. Dicono sia invecchiato e trasandato. Dicono, quelli che l’hanno visto. Attende di conoscere nella sua cella, in solitudine, il responso di una condanna già scritta. Attende di sapere se sarà estradato negli Stati Uniti o rimarrà – chissà per quanto ancora – nelle prigioni della perfida Albione. Attende di sapere se lo aspetterà la pena di morte o l’ergastolo. Attende e dovrà attendere ancora perché l’Alta Corte britannica si è riunita per l’ultimo appello, ma si fa attendere per emettere il verdetto finale. Intanto la settimana che avrebbe potuto portare ad una decisione è terminata. Se ne apre un’altra con tanti punti sospensivi. D’altronde perché graziare il criminale concedendogli una morte certa e veloce, quando gli si può allungare l’agonia? Facendolo morire  poco a poco, una goccia alla volta. Perché non fare vivere di false illusioni, perché non fare sperare nella grazia, magari in zona Cesarini, il miracolo nonostante l’intermediazione, prima di dimostrare la sua risolutezza? Come d’aplomb. Lo sanno bene i genitori di Alfie Evans, di Charlie Gard, di Indi Gregory: fino all’ultimo hanno atteso, hanno sperato, forse si sono pure illusi, salvo poi doversi arrendere a ciò che hanno deciso gli ermellini di Sua Maestà. Che resta una garanzia. È stata e resta, infatti, il miglior alleato americano. E la prova provata è che ospitano Assange nel loro carcere più duro, tanto da essere definito il Guantanamo inglese. Debbono trattenerlo ancora un poco Assange, debbono temporeggiare fino a quando si insedierà il prossimo inquilino alla Casa Bianca. A chi giova, a pochi mesi dal voto, passare come il boia o come colui/lei che ha “graziato” Assange, che ha dimostrato che la libertà è un’arma così pericolosa, tanto da compromettere l’apparato di sicurezza di quella che è la democrazia per antonomasia?
Assange se ne sta là e attende. Per sé e per i suoi. Aggiunge ogni poco una ulteriore goccia alla sua sofferenza. Guttam cavat lapidem. I “suoi” sono gli Assange in atto e in potenza. Assange è solo un assaggio di ciò che può succedere a lui e a quelli come lui. Se ci saranno. E non ci dovranno essere.  Almeno per ora. Nemmeno da parte di quelli che considerano la penna un’arma, l’informazione un mezzo atto a difendere, anche se talvolta offende. Niente. Nemmeno da parte di quelli che alitano democrazia e libbertà ad ogni folata di vento, per poi scoprirsi bandierucole. La libertà di Assange, se non si è capito, è la libertà di tutti noi. Al di là della vita di Assange in sé, tutti noi siamo potenziali Assange. O, ci si augura, dovremmo almeno esserlo. La sua condanna è la nostra condanna, semplicemente, perché la sua battaglia è una battaglia condotta a vantaggio di tutti noi. Lui ha osato svelare i segreti delle “missioni di pace” che sono il vero lavoro degli Stati Uniti d’America. Ha osato mettere a rischio la sicurezza della Difesa americana, ha osato non sottostare a delle regole che hanno sancito una sconfitta della democrazia in nome della libertà. Ha magistralmente dimostrato che i limiti della democrazia, la “più democrazia” del mondo, consistono nella semplice attuazione di sé stessa. Ha inteso raccontare le cose come a quanto pare stanno e, (non) osando, ha rischiato di raccontare il vero. Di fare il suo mestiere, quello del giornalista, come ognuno lo dovrebbe fare. Morirà o non morirà, sarà il simbolo che dovrà distruggere sé stesso. Sarà distrutto dal peso della sua stessa ombra. Come l’albatros ne I fiori del male di Baudelaire, il poeta maledetto. Maledetto Assange, maledetta (per noi) la sua libertà che gli è di impaccio, ora che è rinchiuso in una cella, costretto a tenere chiuse le splendide ali che gli permettono di volare. Assange volerà. Continuerà a volare. Il problema della non libertà sarà di chi resta. Il problema sarà di Biden – leggasi Hillary Clinton – e di Trump che, illo tempore, ha graziato tutti, eccetto proprio Assange. In fondo, lui ricopriva pur sempre la carica di mr. President. Assange è ormai un simbolo. E l’Aquila calva ha già irrimediabilmente perso. Toccherà ancora una volta agli albionici, come in Ucraina, salvare le terga allo zio Sam. Che continua a pronunciare, capricciando, la solita vecchia frase “I want you”. Vuole Assange e Assange lo avrà. Dalle mani inglesi o nelle mani inglesi. Che potranno ammazzarlo, dovranno ammazzarlo perché non riusciranno ad averlo. Non riusciranno a imprigionarlo. Se non il suo corpo che a niente servirà. Se non a farne pubblico ludibrio perché non ci siano più Assange che ha pagato con la libertà la sua libertà. Che rischia di pagare con la vita la libertà degli altri. La libertà di tutti noi.
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