|
||||
|
Leopardi continua ad avere ragione e il suo “Sabato del villaggio” è pura verità : l’attesa è sempre migliore della festa in sé, ma il giorno dopo è la giornata della consapevolezza, dei bilanci e della raccolta di quanto si è seminato. È vero, la Giornata del Ricordo non è di certo una festa – per fortuna – ma il ragionamento che si può applicare è il medesimo. Le celebrazioni in ricordo di quello che ancora si stenta a definire, e non perché inconcepibile logicamente, esodo nella propria Patria non è che ridotto a questa singola giornata. Eccezion fatta, per ragioni di Auditel, per il il palinsesto della terza rete della tivvù nazionale che anticipa alla serata del 9, dunque di qualche ora, la proiezione del film Red Land, Rosso Istria, del regista al quale proprio mamma Rai, in altri tempi e sotto altri padrini e padroni, tagliò i finanziamenti (dei contribuenti italiani) destinati alla cultura, per la produzione di un film sull’esodo Istriano Dalmata e l’orrore delle Foibe.
Qualche lauto convegno, perlopiù nozionistico, a macchia di leopardo – che non è quello de Il Sabato del villaggio – in qualche scuola che ancora stenta per quanto si tenti a fare attecchire anche questo tema, tematica su cui bisogna interrogarsi seria-mente. Numerose le iniziative, perlopiù politiche (che non è completamente un male) di ricordo verso gli istriani, i dalmati, i giuliani che subirono, quando andò bene, una vera e propria persecuzione dai loro stessi connazionali, ormai al soldo del boia iugoslavo, appena usciti da qualche pollaio o palesatisi da qualche montagna o, nella peggiore delle ipotesi, l’infoibamento, la pratica che vedeva gettare coloro che erano “colpevoli di essere italiani” nelle cavità carsiche ancora vivi, spesso legati ai polsi, in fila indiana, con del filo spinato e, non di rado, ammazzato uno sì e l’altro no, in modo che il peso morto di chi precedeva trascinasse giù nella foiba anche chi fosse rimasto ancora vivo e avrebbe fatto anche risparmiare una pallottola al boia titino.
Le pratiche e i riti di tortura, dopo 80 anni dai primi infoibamenti, grazie all’incessante lavoro di chi non si è mai accontentato della storia scritta dai vinti, in questo caso non scritta, ma cancellata addirittura, iniziamo a conoscerla. Le torce delle fiaccolate della serata del 10 di febbraio continuano a fare luce su una pagina buia, anzi strappata addirittura, della storia d’Italia, ma non è abbastanza. Il giorno dopo è quello in cui si deve ripartire e dare un senso alle targhe ripulite dalla Z – “identificazione” della guerra che si sta combattendo in Ucraina e che nulla c’entra con le foibe – o a quella di Capodimonte imbrattata a Napoli lo scorso anno, tanto per contestualizzare. Altrimenti la targa starà lì, come una fredda pietra di tomba, in attesa di un altro 2 novembre che ricorre il 10 febbraio, non diversamente da chi (non) sa cosa faccia la nave della legalità dopo il 23 maggio o l’albero di Falcone e Borsellino a Palermo lasciato solo persino nella ricorrenza dell’arresto di Riina o di Messina Denaro.
Chi conosce i campi IRO a Capodimonte, ricovero per gli sfollati del “nord” della nostra Nazione? E l’animo da sempre accogliente dei napoletani verso chi aveva davvero bisogno? Il credito che i commercianti napoletani facevano agli esuli provenienti dal campo, segno tangibile di cosa significhi in termini pratici solidarietà e accoglienza: ne fa menzione il professor Claudio Antonelli, fratello della compianta attrice Laura, e testimoni di ciò che è stato l’esodo e ciò che è stata Napoli. O abbiamo bisogno di una fredda struttura di ferro dal titolo “Nessuno escluso” piazzata all’ingresso della città piuttosto che della chiave di Milot, in primavera smontata, impacchettata e portata chissà dove, ma voluta dal Comune di Napoli? Il Comune, che oggi si recherà a depositare una corona di alloro, come conferma dell’etichetta vuota, retorica e d’occasione prevede, a Capodimonte, ha pubblicizzato il docu-film andato in onda il pomeriggio del 10 sempre sul terzo canale di stato dal titolo “La diva malinconica” che vede protagonista proprio l’attrice Laura Antonelli e la vita nei campi IRO dove lei, e tanti come lei, con le loro famiglie furono ospitati dal 1948 al 1951? Le scuole hanno mai programmato un viaggio d’istruzione in questi luoghi? Chi a scuola parla – almeno il 10 febbraio – di tale Mario Maffi, classe 1933, scomparso nel 2017 e testimone diretto delle sue scoperte nelle foibe? Appassionato di storia militare, sotto le armi fu inviato in missione segreta, più che speciale, a calarsi nelle cavità del terreno del confine nordorientale per poi ritrovarsi a camminare tra braccia di bambini, mandibole umane o su una sostanza schiumosa che si è rivelata essere grasso umano di persone ormai decomposte. Particolare descrizione riserva a quello (ormai) scheletro abbracciato ad una roccia, quasi saldatosi ad essa, e che i suoi studi hanno finito per concludere che quella persona era morta nel tentativo di risalire dalla foiba, dove era caduta ancora viva in mezzo ai morti. Chissà in quale archivio militare è sepolto il frutto di questo preziosissimo lavoro, commissionato e poi bollato dallo stesso stato quale “top secret”. E questo bollo di stato è l’emblema di questa storia unica che è concesso negare. A proposito: ma Enrich Gobetti e il suo “E allora le foibe?” che fine hanno fatto? Precario e a tempo determinato pure lui? Gobetti a parte, il giorno dopo il Giorno del Ricordo, il giorno dopo le manifestazioni, i convegni e le fiaccolate è necessario ricordare, instancabilmente ricordare perché ancora il giorno dopo aver subito l’esodo non è condizione sufficiente per la nomina a senatore a vita di questa disastrata repubblica, come concesso alla Segre, è il giorno in cui Broz Tito Josip continua a fregiarsi del titolo di cavaliere di gran croce ordine al merito della repubblica italiana e Pertini continua ad essere rappresentato con la pipa in bocca – guai chi lo tocca! – come il “più amato dagli italiani”, giocare a carte in aereo di ritorno dal Mondiale vinto e non come e quando baciava in ginocchio la bara di Tito, autore di questo autentico massacro.
Qualche lauto convegno, perlopiù nozionistico, a macchia di leopardo – che non è quello de Il Sabato del villaggio – in qualche scuola che ancora stenta per quanto si tenti a fare attecchire anche questo tema, tematica su cui bisogna interrogarsi seria-mente. Numerose le iniziative, perlopiù politiche (che non è completamente un male) di ricordo verso gli istriani, i dalmati, i giuliani che subirono, quando andò bene, una vera e propria persecuzione dai loro stessi connazionali, ormai al soldo del boia iugoslavo, appena usciti da qualche pollaio o palesatisi da qualche montagna o, nella peggiore delle ipotesi, l’infoibamento, la pratica che vedeva gettare coloro che erano “colpevoli di essere italiani” nelle cavità carsiche ancora vivi, spesso legati ai polsi, in fila indiana, con del filo spinato e, non di rado, ammazzato uno sì e l’altro no, in modo che il peso morto di chi precedeva trascinasse giù nella foiba anche chi fosse rimasto ancora vivo e avrebbe fatto anche risparmiare una pallottola al boia titino.
Le pratiche e i riti di tortura, dopo 80 anni dai primi infoibamenti, grazie all’incessante lavoro di chi non si è mai accontentato della storia scritta dai vinti, in questo caso non scritta, ma cancellata addirittura, iniziamo a conoscerla. Le torce delle fiaccolate della serata del 10 di febbraio continuano a fare luce su una pagina buia, anzi strappata addirittura, della storia d’Italia, ma non è abbastanza. Il giorno dopo è quello in cui si deve ripartire e dare un senso alle targhe ripulite dalla Z – “identificazione” della guerra che si sta combattendo in Ucraina e che nulla c’entra con le foibe – o a quella di Capodimonte imbrattata a Napoli lo scorso anno, tanto per contestualizzare. Altrimenti la targa starà lì, come una fredda pietra di tomba, in attesa di un altro 2 novembre che ricorre il 10 febbraio, non diversamente da chi (non) sa cosa faccia la nave della legalità dopo il 23 maggio o l’albero di Falcone e Borsellino a Palermo lasciato solo persino nella ricorrenza dell’arresto di Riina o di Messina Denaro.
Chi conosce i campi IRO a Capodimonte, ricovero per gli sfollati del “nord” della nostra Nazione? E l’animo da sempre accogliente dei napoletani verso chi aveva davvero bisogno? Il credito che i commercianti napoletani facevano agli esuli provenienti dal campo, segno tangibile di cosa significhi in termini pratici solidarietà e accoglienza: ne fa menzione il professor Claudio Antonelli, fratello della compianta attrice Laura, e testimoni di ciò che è stato l’esodo e ciò che è stata Napoli. O abbiamo bisogno di una fredda struttura di ferro dal titolo “Nessuno escluso” piazzata all’ingresso della città piuttosto che della chiave di Milot, in primavera smontata, impacchettata e portata chissà dove, ma voluta dal Comune di Napoli? Il Comune, che oggi si recherà a depositare una corona di alloro, come conferma dell’etichetta vuota, retorica e d’occasione prevede, a Capodimonte, ha pubblicizzato il docu-film andato in onda il pomeriggio del 10 sempre sul terzo canale di stato dal titolo “La diva malinconica” che vede protagonista proprio l’attrice Laura Antonelli e la vita nei campi IRO dove lei, e tanti come lei, con le loro famiglie furono ospitati dal 1948 al 1951? Le scuole hanno mai programmato un viaggio d’istruzione in questi luoghi? Chi a scuola parla – almeno il 10 febbraio – di tale Mario Maffi, classe 1933, scomparso nel 2017 e testimone diretto delle sue scoperte nelle foibe? Appassionato di storia militare, sotto le armi fu inviato in missione segreta, più che speciale, a calarsi nelle cavità del terreno del confine nordorientale per poi ritrovarsi a camminare tra braccia di bambini, mandibole umane o su una sostanza schiumosa che si è rivelata essere grasso umano di persone ormai decomposte. Particolare descrizione riserva a quello (ormai) scheletro abbracciato ad una roccia, quasi saldatosi ad essa, e che i suoi studi hanno finito per concludere che quella persona era morta nel tentativo di risalire dalla foiba, dove era caduta ancora viva in mezzo ai morti. Chissà in quale archivio militare è sepolto il frutto di questo preziosissimo lavoro, commissionato e poi bollato dallo stesso stato quale “top secret”. E questo bollo di stato è l’emblema di questa storia unica che è concesso negare. A proposito: ma Enrich Gobetti e il suo “E allora le foibe?” che fine hanno fatto? Precario e a tempo determinato pure lui? Gobetti a parte, il giorno dopo il Giorno del Ricordo, il giorno dopo le manifestazioni, i convegni e le fiaccolate è necessario ricordare, instancabilmente ricordare perché ancora il giorno dopo aver subito l’esodo non è condizione sufficiente per la nomina a senatore a vita di questa disastrata repubblica, come concesso alla Segre, è il giorno in cui Broz Tito Josip continua a fregiarsi del titolo di cavaliere di gran croce ordine al merito della repubblica italiana e Pertini continua ad essere rappresentato con la pipa in bocca – guai chi lo tocca! – come il “più amato dagli italiani”, giocare a carte in aereo di ritorno dal Mondiale vinto e non come e quando baciava in ginocchio la bara di Tito, autore di questo autentico massacro.