E con questo 16 giugno sono quarantatré. Quarantré gli anni trascorsi dalla morte di Francesco Cecchin, volato nell’olimpo degli eroi, dopo essere volato dal parapetto di un’abitazione di via Montebuono al numero 5, nel quartiere Salario a Roma, una volta riconosciuti i suoi aggressori che, nel frattempo erano solo i suoi inseguitori. Gli stessi con cui nel pomeriggio Francesco aveva avuto un alterco per una questione di manifesti.
Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI. Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe. Strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia. Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola caduta – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi – essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de “Il Vizietto” nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della giustizia dell’Italietta. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste quella verità storica che non può più essere nascosta, o peggio, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scriva la parola fine su questa feroce esecuzione.
Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.
Sappiamo che il giovane Cecchin non era un fascista, non avrebbe potuto esserlo per una questione anagrafica – nel ’79 alla morte non aveva ancora compiuto la maggiore età – e non poteva esserlo per una questione temporale – era nato nel 1961 – ma era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche ed elettorali. Raccoglierne l’eredità di intenti e di ideali. Che sono pesanti quanto un macigno. Ma non l’esempio. Quello è troppo scomodo. Non sappiamo, allora, perché in ogni occasione, inutile quanto gratuita, bisogna ricordare che in taluni partiti che ancora sono/vorrebbero essere illuminati dalla luce di quella stessa fiamma per cui Cecchin – ma non solo: penso a Falvella di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, alla strage di Acca Larentia, a Sergio Ramelli, ai fratelli Mattei, troppo piccoli persino per entrare in una sezione – ha dato la vita, non ci sia (più) spazio per i “fascisti”. Se si può ancora parlare di fascisti un ventennio dopo l’ingresso nel terzo millennio, cent’anni dopo la Marcia su Roma. Se ancora può parlare quella generazione che è viva grazie a lui e a quelli come lui, ma che si è prestata vergognosamente all’abiura. Delle strutture, dei concetti, dell’Idea. Ma non di certi simboli e di una certa simbologia, che può sempre tornare utile in termini di consensi. Compresa quella fiamma che, nonostante tutto, continua ad essere viva, che si erge pre-potente da quella base trapezoidale in cui qualcuno, più di qualcuno dotato di fervida immaginazione, ci ha visto il catafalco di chi quella Idea l’ha fondata. Quel catafalco in cui ancora non trovano riposo coloro che quella fiamma – (sep)pur senza catafalco e senza acronimi stavolta – hanno contribuito a tenerla ancora ardente. Quel catafalco simbolo di quei martiri dell’Idea da non uccidere ancora. Non oltre. Quella fiamma ancora viva, come ogni atto rivoluzionario.
Dopo quasi mezzo secolo sappiamo chi è Francesco Cecchin e sappiamo della sua militanza politica nel Fronte della Gioventù, l’organizzazione giovanile dell’MSI. Sappiamo della sua lunga agonia – coma indotto per diciannove giorni – così come sappiamo delle fratture su tutto il corpo, eccetto mani e gambe. Strano modo di cadere per uno che vola da un’altezza considerevole. O meglio, di atterrare. Di testa.
Sappiamo del cranio fracassato, sappiamo della milza spappolata, sappiamo delle chiavi di casa piegate ancora tra le mani, usate per difendersi e del pacchetto di sigarette (gettato) vicino al ragazzo ferito. Sappiamo che sul suo corpo è stata eseguita un’autopsia il cui esito è indiscutibile e sappiamo che, nonostante quella perizia, non è mai stata fatta giustizia. Sappiamo che gli assassini di Francesco avevano tutta l’intenzione di uccidere – l’accusa fu di omicidio volontario che, molto verosimilmente, era solo il nuovo significato da attribuire alla parola caduta – ma non sappiamo perché l’unico indagato, nonostante abbia mentito spudoratamente al processo riguardo il proprio alibi – essere andato al cinematografo Ariel per assistere alla visione de “Il Vizietto” nonostante quella sala non avesse in proiezione il film indicato – s’è potuto guadagnare con la falsa testimonianza sostenuta, il premio per non aver commesso il fatto. Il fatto sarebbe il concorso in omicidio, ma non si sa con chi. Altro vizietto tipico della giustizia dell’Italietta. Come quello di non trovare il colpevole. Che pure esiste. Come esiste quella verità storica che non può più essere nascosta, o peggio, ulteriormente negata, in attesa che la giustizia scriva la parola fine su questa feroce esecuzione.
Una parola fine che serve a non ammazzare ancora una volta Francesco, cui il Viminale, il “deputato” all’ordine pubblico della sicurezza di questa repubblica, ha negato anche la possibilità di essere inserito tra le vittime del terrorismo. Come se gli anni di piombo siano stati solo una marachella adolescenziale. Come se il suolo d’Italia in quegli anni non sia stato calpestato dall’odio politico, spesso avallato e coperto nella stanza dei bottoni con lo stesso telo bianco con cui si è da sempre tentato di coprire la verità e sotto il quale è stata sepolta la giustizia.
Sappiamo che il giovane Cecchin non era un fascista, non avrebbe potuto esserlo per una questione anagrafica – nel ’79 alla morte non aveva ancora compiuto la maggiore età – e non poteva esserlo per una questione temporale – era nato nel 1961 – ma era un militante che credeva in una Idea difesa col sangue. Quella Idea di cui oggi altri, magari suoi coetanei, hanno potuto raccogliere il testimone e le conseguenti fortune politiche ed elettorali. Raccoglierne l’eredità di intenti e di ideali. Che sono pesanti quanto un macigno. Ma non l’esempio. Quello è troppo scomodo. Non sappiamo, allora, perché in ogni occasione, inutile quanto gratuita, bisogna ricordare che in taluni partiti che ancora sono/vorrebbero essere illuminati dalla luce di quella stessa fiamma per cui Cecchin – ma non solo: penso a Falvella di cui quest’anno ricorre il cinquantenario della morte, alla strage di Acca Larentia, a Sergio Ramelli, ai fratelli Mattei, troppo piccoli persino per entrare in una sezione – ha dato la vita, non ci sia (più) spazio per i “fascisti”. Se si può ancora parlare di fascisti un ventennio dopo l’ingresso nel terzo millennio, cent’anni dopo la Marcia su Roma. Se ancora può parlare quella generazione che è viva grazie a lui e a quelli come lui, ma che si è prestata vergognosamente all’abiura. Delle strutture, dei concetti, dell’Idea. Ma non di certi simboli e di una certa simbologia, che può sempre tornare utile in termini di consensi. Compresa quella fiamma che, nonostante tutto, continua ad essere viva, che si erge pre-potente da quella base trapezoidale in cui qualcuno, più di qualcuno dotato di fervida immaginazione, ci ha visto il catafalco di chi quella Idea l’ha fondata. Quel catafalco in cui ancora non trovano riposo coloro che quella fiamma – (sep)pur senza catafalco e senza acronimi stavolta – hanno contribuito a tenerla ancora ardente. Quel catafalco simbolo di quei martiri dell’Idea da non uccidere ancora. Non oltre. Quella fiamma ancora viva, come ogni atto rivoluzionario.