Quarantadue anni sono un tempo sufficiente per guardare le cose col disincanto del tempo ma, per fortuna, un tempo non troppo lontano da poterne offuscare il ricordo e comprometterne la verità.
Sono passati già quarantadue anni da quando Francesco Cecchin, dopo un’agonia lunga diciannove giorni, diventava un mito eterno. Quarantadue anni che hanno visto indagini sommarie, sentenze discutibili ma, soprattutto, che non hanno visto nessun colpevole.
La storia di Francesco è tristemente nota, anche con dovizia di particolari grazie al meticoloso lavoro di ricerca di prove e testimonianze compiuto dai suoi tanti camerati, ma non è stata sufficiente a far condannare l’unico processato, il comunista Stefano Marozza. Personaggio pericoloso e animo criminale che insieme con (almeno) un altro suo compagno aguzzino inseguiva Cecchin per le vie del quartiere Trieste a Roma, sino a compiere il tremendo delitto proprio sotto casa del giovane malcapitato. Aguzzino che tuttavia aveva trovato il tempo, prontamente, di dichiarare alle Forze dell’Ordine di aver preso parte, la sera dell’agguato, alla visione del film “Il Vizietto” presso il cinematografo Ariel di Roma. Poco importò agli inquirenti che mai in quella sala cinematografica fosse stata proiettata quella pellicola. Una falsa dichiarazione che gli valse il premio dell’assoluzione per non aver commesso il fatto. Di qualche suo compagno di ventura nemmeno se ne ricorda più la memoria. A nulla valse nemmeno la perizia autoptica perché i segni ritrovati sul corpo di Francesco, precipitato da un ballatoio da oltre tre metri di altezza e ritrovato con la schiena e la testa fracassate su un lampione e con le chiavi e le sigarette in mano, escludevano che il giovane missino fosse stato con certezza picchiato prima di precipitare. Ma rimaneva appurato che la vittima fosse stata scaraventata giù dal muretto con la chiara intenzione di fargli del male. Un gesto criminale, al limite della bestialità e dell’odio politico, da parte di chi non è mai stato giudicato un assassino.
Eppure Francesco non aveva colpe, non era un fascista, se questo può essere una colpa agli occhi degli uomini. Era troppo giovane per esserlo, ma era un militante che credeva in un’Idea che onorava con passione e dedizione. Un’Idea per la quale ha sacrificato la sua stessa giovane vita. Non diversamente da altri ragazzi di quell’epoca: Carlo Falvella, Sergio Ramelli, Stefano Recchioni, Franco Bigonzetti, Francesco Ciavatta, i fratelli Mattei. Solo alcuni dei nomi di giovani militanti missini caduti in quegli anni feroci e tutti vittime del medesimo odio comunista.
Erano gli anni di piombo i loro. Anni pericolosi e letali, gli anni in cui uccidere un fascista non era reato: eppure c’erano giovani che non rinunciavano ai propri ideali, che portavano alta la loro bandiera non indietreggiando davanti ad un nemico feroce e invasato dalla propaganda e dalle falsità a buon mercato diffuse ad arte per invelenire il clima politico di quegli anni bui e trarne vantaggio politico per la sinistra parlamentare. Che rimaneva a guardare soddisfatta. E a farne le spese furono tanti di loro. Quei giovani di ogni parte d’Italia, poco più che adolescenti, che combatterono strenuamente per la libertà di poter esprimere le proprie idee. Per affermare il diritto alla propria esistenza, alla propria cultura, a ciò in cui essi fortemente credevano. Sino al punto di sacrificare la propria vita.
A distanza di quasi cinquant’anni, a chi ha sentito il dovere di tenere ancora accesa quella fiamma nel loro ricordo, in continuità con gli stessi valori e ideali che hanno radice comune, (quella così profonda da non gelare mai) sono affidati quegli esempi e quegli insegnamenti. Oggi attuali e validi più che mai. Penso a quei ragazzi di Firenze, ancora una volta militanti di destra, che sono stati recentemente imprigionati tre lunghi mesi per un volantinaggio nella loro scuola, o meglio, nel liceo diretto da un preside del PD. Un surrogato di quelli che una volta erano i comunisti, oggi mascherati da “catto”, poi “evoluti” in democratici, ma che hanno la comune appartenenza all’odio del diverso in forma buonista. Spacciata per politicamente corretta.
Penso, al contrario, ai tanti “pasionari” di quella stessa ideologia di morte, autori di ogni infamia possibile, che oggi si mascherano dietro le insegne grottesche delle sardine, spacciandosi per giovani vogliosi di partecipare alle decisioni della politica, ansiosi di poter cambiare la società e di orientare la politica verso nuove forme di collaborazione e di condivisione delle scelte sulla società, sull’ambiente, sul futuro delle nuove generazioni. E invece non sono altro che i figli e i nipotini di quei terroristi degli anni 70. Pronti a distruggere e a prevaricare chi non la pensa come loro. E anche loro, come i loro progenitori, vigliaccamente protetti e coccolati da una stampa di regime che li esalta tutt’ora e li incoraggia.
Ma penso anche e con preoccupazione, ai ragazzi in età scolare, tutti indifferentemente reclusi dietro un pc ad apprendere nozioni di una scuola una volta luogo di socializzazione, aggregazione e formazione per eccellenza e oggi ridotta a didattica a distanza. Sono loro che realizzeranno il futuro del nostro Paese. Ma in questo modo, con questa scuola e con queste restrizioni della libertà quale futuro sapranno costruirsi? Iniziando proprio ai loro danni il rimbambimento di massa, collettivo, globale. Gli anni ’70 sono stati sinonimo di droga libera, per poi passare al permissivismo, all’amore libero, Peace & love, i figli dei fiori, il corpo è mio e lo gestisco io, con conseguente distruzione della famiglia tradizionale. Oggi invece bambini e adolescenti sono abbandonati alle tecnologie e all’immobilismo. E poi cibi spazzatura & videogiochi. E chi più ne ha, più ne metta, nella speranza di massificare loro cervello e pulsioni. Speranze e aspettative. In una parola, predeterminando il loro futuro.
E che dire della gente comune, di qualsiasi età, di tutte le condizioni sociali e di ogni estrazione culturale e politica incapaci di far valere i propri diritti per esercitare i propri doveri, inabili a ribellarsi per la difesa della propria libertà e per quella che essi tramanderanno ai propri e figli e nipoti, che accettano tutto e tutti con indifferenza e irresponsabilità, che non insorgono minimamente contro il fatalismo divenendo così i primi, diretti responsabili in un mondo di rovine, inadeguati persino a rimanere in piedi, mentre il mondo crolla.
Francesco Cecchin e mille altri come lui hanno avuto coraggio e magnanimità e lo hanno avuto per noi, combattendo in prima persona contro un mondo già in quegli anni in declino e condannato all’oblio. Pagando un prezzo molto alto per la loro coerenza, il loro credo politico, i loro valori. Quei ragazzi sono stati dei fari che hanno illuminato il percorso per tanti di noi. Sono stati quelli che hanno fatto proprio l’insegnamento dantesco del Virgilio che illumina la strada per chi verrà dopo di lui.
Francesco è stato ammazzato, ma non é morto invano, è più vivo che mai, più vivo di tanti che oggi vegetano credendo di vivere, che si aggrappano all’elisir dell’immortalità ma che sono inconsapevoli di essere già morti, che sprecano il loro tempo rendendolo vuoto e vano, che rischiano di essere i migliori alleati dei propri carnefici e dei propri aguzzini. Poiché esserlo inconsapevolmente non è per nulla una giustificazione e tanto meno una discolpa. Basterebbe solo seguire il suo esempio, basterebbe seguire quello che è stato il motto di vita di Francesco Cecchin : “Cammina soltanto sulla strada dell’onore. Lotta e non essere mail vile. Lascia agli altri le vie dell’infamia”.
Allora e oggi più di allora , Francesco Cecchin è presente !!
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