Un volto e una testimonianza dell’esodo Istriano: Il Professor Claudio Antonelli. Esistono degli “inghiottitoi” carsici (caverne con caratteristiche di pozzi profondi verticali), capaci di fagocitare migliaia di persone: sono le foibe. E ne esistono altri, capaci di nascondere la verità di ciò che avvenne durante la pulizia etnica compiuta dagli Slavo-comunisti nelle terre italiane del Nord-Est divenute poi jugoslave, durante e subito dopo l’ultima guerra mondiale. Questi ultimi inghiottitoi sono sempre in attività e raddoppiano di zelo in occasione del 10 febbraio, consacrato al Ricordo di quei giorni infami.
Ma essa smentisce la fiaba del lieto fine dell’ultima guerra mondiale con la Liberazione e la Democrazia e il “da allora vivemmo felici e contenti”. In realtà noi perdemmo una piccola ma preziosa parte dell’Italia, popolata di veri Italiani. Ma cosa volete, nonostante il “rompete le righe” che il crollo del Muro lanciò ai militanti dell’ideologia marxista e alle nutrite schiere dei suoi utili idioti, il conformismo e lo spirito antinazionale continuano a dominare nel Bel Paese.
Io ho potuto rivolgermi al prof. Claudio Antonelli (in origine il cognome era Antonaz), istriano di Pisino, dal profondo amor patrio, che oggi vive in Canada. Figlio di genitori rimasti per sempre fedeli alle terre perdute, i suoi gli hanno trasmesso – mi ha detto – un esempio prezioso d’italianità vissuta nei fatti e non nelle parole. Ossia un esempio di patriottismo nobile, alieno da ogni retorica e che rispetta i patriottismi altrui – come l’amore per la propria mamma dovrebbe far capire che anche gli altri amano la loro madre – ed è fonte di civismo, di responsabilità sociale, di autodisciplina e, quando necessario, di abnegazione. Questo paragone gli viene ogni volta spontaneo, mi ha detto Claudio Antonelli, per spiegare le cose ai mammisti italiani. L’estero ha messo alla prova, confermandoli però pienamente, questi suoi valori di partenza. Il dott. (PhD) Antonelli, sia pur giovanissimo a quei tempi, ha vissuto in prima persona la condizione di esule. Osservatore attento e appassionato dei legami che intercorrono tra la terra di appartenenza e l’identità dell’individuo e dei gruppi e che ha scritto articoli e svariati libri su questo tema, purtroppo ancor oggi divisivo. Il dottor Antonelli è stato insignito nel 2003 dal Presidente della Repubblica del titolo di “Cavaliere dell’Ordine della Stella della solidarietà italiana”, per aver “svolto negli anni una costante azione di sostegno alla lingua e alla cultura italiana nel Québec”. Nel 2010 ha ottenuto il premio “Histria-Terra” con la seguente motivazione: “Noto divulgatore della cultura e della storia delle terre e delle genti d’Istria, per l’impegno costante ed indefesso, profuso nel difendere la verità storica anche in terre lontane, risiedendo egli stesso in Canada”.
La sua condizione prima di profugo poi di emigrato ha forgiato il suo carattere, la sua personalità, il suo essere, tanto quanto ha influito l’esempio dei suoi genitori, l’esempio della loro coerenza, del loro coraggio e della profondità dei loro sentimenti per l’amor patrio, alla cui base ci sono le foibe, l’odio tribale slavo, la sconfitta dell’Italia, la tragedia dell’esodo, lo sradicamento, i campi profughi, la dispersione di questa gente, della “nostra” gente, l’eterno rimpianto dell’Istria, il lutto per l’onore perduto e il senso di nausea per il conformismo antipatriottico e il filocomunismo come le cause dirette dei sentimenti di tutta una vita.
Essere profugo giuliano era essere “fascista”, era essere traditore, era sufficiente per essere condannato come colpevole in quella Italia buona e giusta che espresse il terrorismo delle Brigate Rosse e il diffusissimo fenomeno radical chic che esaltava la Jugoslavia di Tito, la Cina di Mao e la Cambogia di Pol Pot.
“Fascisti, ossia esseri subumani meritevoli di morte, di una morte inflitta dopo terrore e torture è l’etichetta giustificatrice della logica della raccolta differenziata, invalsa per tanti anni negli ambienti che contano in Italia e che surrettiziamente continua, con i morti italiani delle terre del confine orientale. Automaticamente e criminosamente considerati fascisti e sversati nella discarica dell’oblio e addirittura dell’odio. Per oltre mezzo secolo, scarsi o addirittura nulli i segni di simpatia verso questa gente etichettata fascista dalla sinistra e considerata mezza slava dagli Italiani, i quali, governo in testa, da buoni “sconfitti” e, da diligenti esterofili, hanno adottato i nomi slavi per località la cui toponomastica per secoli è stata italiana”.
Sono gli anni del bacio da parte di Sandro Pertini, il presidente più amato dagli Italiani, al catafalco di Tito avvolto nella bandiera jugoslava, lo stesso che non si degnò di deporre un fiore sulla foiba di Basovizza. Ma che anni prima commemorò con accenti commossi il suo Stalin: «Egli è un gigante della storia e la sua memoria non conoscerà tramonto. Siamo costernati dinanzi a questa morte per il vuoto che Giuseppe Stalin lascia nel suo popolo e nella umanità intera».
Sono gli anni in cui l’Unità scriveva “Ancora si parla di profughi: altre le persone, altri i termini del dramma. Non riusciremo mai a considerare aventi diritto ad asilo coloro che si sono riversati nelle nostre grandi città. Non sotto la spinta del nemico incalzante, ma impauriti dall’alito di libertà che precedeva o che coincideva con l’avanzata degli eserciti liberatori”. Sono le stesse belve che oggi predicano accoglienza urbi et orbi fornendo spazio, vitto, alloggio e trasporto ai nuovi profughi, anche a quelli così chiamati, ma che non fuggono da nessuna guerra. Una libertà incomprensibile per quasi mezzo milione di persone, una libertà che ha il sapore del sangue e della carne viva bucata dal filo spinato, dello scherno e dello stupro, della morte con un colpo alla nuca o dell’inghiottimento da vivo nella foiba trascinati dal parente o dall’amico ancora caldo di morte, della fuga infinita e dal dolore, della paura dello scoppio del cuore in petto che impedisce di tornare, anche decenni dopo, nella propria terra, in Patria, laddove c’era la propria casa, oggi occupata da stranieri.
“Casa”, però, trovata a Napoli dalla famiglia Antonelli, al campo profughi di Capodimonte: “Mia madre, il giorno dopo che la mia famiglia vi si fu installata, si recò in un mercatino, all’esterno del muro di cinta, a fare qualche spesetta. Non ricordo più se il luogo fosse “Porta Piccola” o invece fosse “Porta Grande”. Comprò qualcosa a una bancarella – penso fosse della farina o forse era qualcos’altro – e al momento di pagare tirò fuori il denaro che aveva: una banconota. Era di mattina presto e la donna della bancarella non aveva il resto. Mia madre subito ripose il pacchetto, convinta di dover fare così. Noi eravamo reduci dal centro di raccolta Foscarini di Venezia, dove i veneziani – i miei genitori lo ripetevano con fastidio e amarezza – avevano la tendenza a trattarci come indesiderabili. Ma la donna chiese dove mia madre abitasse e seppe che era una profuga. Del resto, l’accento glielo aveva già fatto capire. Nel bosco di Capodimonte, lì accanto, lei sapeva che vi era una nutrita colonia di profughi giuliano-dalmati. Nel vedere che mia madre, contrita, riponeva il pacchetto, la venditrice disse sorpresa: “Che fate signora? Prendete, prendete! Non ci pensate! Pagherete quando ripasserete!”
Mia madre raccontò l’episodio innumerevoli volte. E sempre con animo riconoscente. Ed è anche per questo piccolo avvenimento, che significò tanto per noi, come anche per altri episodi simili da me vissuti a Napoli, che io sono rimasto sempre fedele nel cuore a questa città, dove noi profughi fummo in genere accolti con umanità e simpatia”.
Umanità sconosciuta nei confronti di una ricorrenza ormai fissata: “io, originario dell’Istria, non provo più il senso di speranza che il Giorno del Ricordo aveva suscitato in me agli inizi. Mi appare ormai chiaro
che l’Italia non farà mai sua la tragedia della sconfitta e della guerra civile e della perdita delle nostre amate terre. Provo anche fastidio e disagio per le polemiche che questa ricorrenza rinfocolerà, con gli immancabili gesti di protesta e anche di vandalismo a danno di targhe e iscrizioni commemoranti il martirio della nostra gente. Inoltre, in un Paese dove ciò che conta è “portare avanti il discorso”, il Giorno del Ricordo sfiora ogni volta il pericolo di trasformare la nostra passata tragedia in un tema da talk show. E oltre a riattizzare nella penisola gli abituali odi civili antitaliani, le nostre commemorazioni suscitano ringhi e latrati oltreconfine: in Slovenia e in Croazia, dove – incredibile a dirsi – credono che gli Italiani siano capaci di nutrire sentimenti di riconquista e di rivincita. In realtà “il passato è passato” e noi esuli non sogneremmo riconquiste territoriali neppure con la mente obnubilata dall’alcol. Dove sono gli estremisti giuliano-dalmati? Quali episodi di violenza abbiamo noi espresso? Il bilancio è zero. Nonostante ciò, noi, esuli o figli di esuli, dobbiamo difenderci da accuse, tacite e talvolta urlate. Cari italiani, continuate ad essere voi stessi, con le vostre beghe, la vostra rissosità permanente, i vostri odi civili… Nessuno vi chiederà l’impossibile: smentire per più di un solo giorno il vostro DNA. Ma qualcosa, dopotutto, è cambiato dopo il lungo silenzio, grazie anche alla medaglia d’oro alla memoria per i nostri morti istituita da Menia, e grazie ai libri, film e testimonianze. Il dramma del nostro popolo e delle sue foibe non è più un tema tabu. Ma il “Giorno del Ricordo” dà ogni volta, purtroppo, anche la stura alla canea dei negazionisti e dei giustificazionisti che monteranno in cattedra con i loro “Sì, però, anche noi…”, “Sì, però bisogna capire…” e presenteranno la contabilità dei morti, con le due colonne “dare” e “avere” ben in evidenza, e con il giudizio finale: “Tutto va ricondotto al fascismo…”. Invece di dover rispondere delle atroci nefandezze del comunismo e dei suoi gulag, inclusa la croata “Isola Calva” (Goli Otok), negazionisti e giustificazionisti continueranno ad accusare i nostri morti dall’alto di una cattedra che spetta loro di diritto in un’Italia dove, tra le élite della nostra Nazione, orfane di Stalin, di Togliatti, di Tito e di Pertini, trionfa e trionferà sempre un certo spirito antitaliano”.
Lo spirito antitaliano mai guarito e mai domo dove si vede Fascismo ovunque e dove non si capisce come mai un insulto come quello titolato da Eric Gobetti finisce addirittura in stampa: “E allora le Foibe?” è l’ultima “fatica letteraria” edita da La Terza, in uscita (non) casualmente in concomitanza con il Giorno del Ricordo e che stando alla lettura della sinossi e alla foto del Gobetti con tanto di pugno chiuso, fazzoletto rosso e bandiera titina alle spalle non offrirà certo una narrazione (?) obiettiva e scevra da direzioni a senso unico.
Sui resti delle sventurate vittime di una delle tante foibe, si trova una testimonianza nel fresco di stampa «Terronia Felix» dell’amica saggista Marina Salvadore, napoletana figlia di esuli, la quale racconta il viaggio compiuto da bambina insieme con la madre nel cimitero di Pola e l’orripilante scoperta dei «morti senza croce». Marina ci dice nel suo libro che in cima agli orrendi paletti la stella rossa aveva preso il posto delle croci, degli angeli, e di qualsiasi altro simbolo, con “fosse rubate” ed occupate da altri morti. Esuli persino del riposo eterno, restituito in qualche modo dal tratto umano, cristiano, del custode del cimitero, il buon Dussan, amico di famiglia, della cara Marina.
D’altronde questo è ancora il paese della Liliana Segrè incensata ed osannata, innalzata ai troni di senatrice a vita e di Egea Haffner, la bambina con valigia numero 30001 che non vuole essere strumentalizzata, nonostante sia autentica e inestimabile fonte diretta della sciagura nazionale, come il nostro Antonelli, un accademico che ha solo “ben ha rappresentato l’Italia all’estero”.
Chissà quando avremo un Presidente della Repubblica “normale” da potersi ricordare anche di questi “figliastri” d’Italia.
Voglio concludere con queste parole di Claudio Antonelli:
«Con il disfacimento nel sangue della Jugoslavia (1991), i nostri vicini dell’Est hanno avuto modo di riproporre alle platee mondiali le specialità balcaniche delle carneficine e delle fosse comuni. Con i riflettori dei mass media puntati questa volta su di loro, e non nel silenzio e nell’indifferenza come fu invece per noi. Ma nella patria degli odi civili, la logica binaria del campo di calcio è incisa nel Dna nazionale. E i custodi della verità ufficiale dell’“Italia nata dalla Resistenza” scendono ogni volta in campo contro la squadra avversaria, composta di gente che non prova altro che un normale sentimento di amor patrio e vuole ricordare i propri morti e onorare i padri. Gente pacifica, che non ha mai espresso atti di violenza e che non nutre sogni di riconquista, e rispetta la dignità dei suoi avversari ex Jugoslavi e sa che nelle foibe di Tito finì un numero tragicamente alto di Slavi anticomunisti (vedi: “Slovenia. Anche noi siamo morti per la Patria”). Ascoltiamo i testimoni rimasti, il cui numero si assottiglia… Immaginate cosa si racconterebbe di noi in Italia se non ci fossero state le testimonianze di personaggi celebri come Benvenuti, Endrigo, Andretti, Luxardo, Pamich, Missoni… e se non ci fosse un gran numero di scritti di altri testimoni diretti di quei giorni infami. Vorrei infine rivolgere ai tanti nostri morti, uccisi perché Italiani, le struggenti parole finali dell’elegia che Biagio Marin, cantore dell’Istria e delle terre perdute, dedicò a Pola:
“E Pola gera sola/co’ case svode in pianto;/la sova zente intanto/xe sénere che svola. = E Pola era sola/con le case vuote in pianto;/la sua gente intanto / è cenere che vola.
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