Si parla molto, da mesi, del regionalismo differenziato e se ne parla, da parte delle opposizioni, in modo intenzionalmente confuso e fuorviante, nell’intento palese di montare polemiche, spaventare i cittadini delle regioni del sud Italia e tentare, in tal modo, di arginare la crescita della Lega al sud.
Il tema del regionalismo differenziato è stato, da più parti, evidentemente strumentalizzato e distorto.
E’ doveroso, perciò, tentare di far chiarezza su alcuni punti: l’autonomia regionale differenziata non è affatto una secessione mascherata come alcuni vorrebbero far credere.
Per comprendere come nasce e si sviluppa ed inquadrare correttamente il tema, occorre fare un passo indietro e ricordarne anzitutto la genesi.
Ossessionati dal nazionalismo fascista (contrario alle autonomie locali, al punto di subordinare anche gli istituti comunali alla tutela dello Stato centrale), i Padri Costituenti vollero frazionare il potere centrale: di qui il Titolo V della Costituzione.
Per questa ragione, secondo lo storico Claudio Pavone, “la Resistenza è stata pressoché unanime nel rivendicare decentramento e autonomie locali”. Originariamente, dunque, il progetto politico federalista, sembra debba essere inquadrato nella cornice del tanto attualmente sbandierato “antifascismo”.
L’autonomia differenziata, per le regioni a statuto ordinario, nasce, però, dalla lettera dell’art. 116, comma terzo, della Costituzione introdotto con la riforma del titolo V (che prevede la possibilità per le regioni con i bilanci in ordine di chiedere l’assegnazione di maggiori competenze rispetto a quelle previste normalmente per le ragioni a statuto ordinario), approvata da una maggioranza di centrosinistra nel 2001 e, fortemente, voluta da D’Alema.
Va detto, inoltre, che in materia il dossier da cui è partito il lavoro dell’attuale Governo è quello firmato dal Governo Gentiloni (PD) che, nel 2018, 4 giorni prima delle elezioni politiche, sottoscrisse con la Lombardia, il Veneto ed Emilia Romagna gli accordi preliminari dell’autonomia differenziata (che individuavano i principi generali, i metodi e un primo elenco delle materie oggetto dell’autonomia).
Dunque, se di “secessione mascherata” il PD vuole davvero parlare, abbia l’onestà intellettuale di riconoscere che tale misura è stata voluta e avviata da D’Alema prima e da Gentiloni poi.
In verità pregiudizi e timori in tema di autonomia regionale nascono da un equivoco di fondo, ovvero dalla proposta avanzata dalla regione Veneto, ma mai approvata, di trattenere il cosiddetto “residuo fiscale”. Di qui il timore che l’autonomia concessa alle regioni economicamente in salute e quindi con maggior gettito fiscale, possa ridurre le tasse normalmente redistribuite a livello nazionale, e, per l’effetto, ridurre le risorse a disposizione delle regioni economicamente più in difficoltà, cioè le regioni del Sud.
In merito, va chiarito, in primo luogo e una volta per tutte, che è stata esclusa l’opzione (chiesta da Lombardia e Veneto) di parametrare gli standard di finanziamento dello Stato alla “capacità fiscale” di ogni territorio. In tal caso le regioni più ricche avrebbero avuto margini di spesa più generosi e livelli di servizio maggiori a scapito delle meno ricche. Ma, sia chiaro, di tale meccanismo nel testo delle intese non c’è traccia!
Questo è lo spauracchio cavalcato da chi ha interesse a fomentare ansia e avversione verso una misura che, invece, punta a responsabilizzare gli amministratori regionali e, di conseguenza, anche gli stessi cittadini che sono chiamati ad eleggerli e comporta, unicamente, che la gestione delle risorse “ora spese” per le materie su cui le Regioni possono chiedere autonomia, sia affidata direttamente a quelle Regioni che ritengono di poter gestire tali risorse con maggiore efficacia e rapidità rispetto all’azione statale, con superamento di sprechi e inefficienze.
Per chiarire perchè l’autonomia differenziata non danneggerà le regioni del sud, è sufficiente fare luce sul criterio secondo il quale saranno assegnate le risorse che corrisponderanno alle nuove competenze trasferite a quelle regioni che ne faranno richiesta: nel programma dell’attuale Governo, il criterio in questione è quello della “spesa storica” o del “costo storico” (in base al quale lo Stato destinerebbe alla Regione richiedente lo stesso ammontare di risorse, senza variazioni, sia per il bilancio statale che regionale. Lo Stato, in altri termini, assegnerebbe alla regione quanto già spendeva in precedenza per quella determinata competenza, con un calcolo riferito all’anno di approvazione definitiva della richiesta inoltrata dalla Regione).
Ed infatti, nelle intese sottoscritte con le regioni, si fa riferimento, per i primi 5 anni, al trasferimento del “costo storico” da parte dello Stato e, per il secondo quinquennio, si prevede di passare al criterio del “costo standard dei servizi”: con dei decreti Palazzo Chigi, dopo un complesso lavoro tecnico, dovrà individuare il cosiddetto “costo efficiente” di quelle funzioni assegnate ad ogni Regione. Il finanziamento garantirà la copertura di quel costo.
Una volta definiti i fabbisogni standard, il criterio di assegnazione delle risorse diventerebbe, appunto, quello del costo standard, che potrebbe anche (attenzione) essere più elevato rispetto al “costo storico corrente”.
In ogni caso va detto che la definizione di questi parametri sarebbe affidata a un comitato cui parteciperebbero “tutte le regioni”.
Ne consegue che, chi nel primo quinquennio non sarà in grado di produrre risultati, ma sperpererà le risorse sarà penalizzato successivamente. E’ forse questo a spaventarci?