venerdì, Novembre 22, 2024
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(L’)ODE AL BACCALA’, OVVERO LA FENOMENOLOGIA DELLA POL-ITTICA.

Nella giornata dedicata al Santo Patrono di Napoli (non gridiamo al miracolo, ma solo perché pensiamo che Gennarino da Pozzuoli abbia cose davvero più importanti di cui occuparsi) si è conclusa la sei giorni di Napoli dedicata a Sua Maestà il Baccalà: Baccalàre. Come ogni regale che si rispetti, anche il pesce dei poveri, figlio del sei politico e del dogma “uno vale uno, divenuto poi uno vale l’altro, ha avuto la sua degna dimora: dopo il lungomare e altri angoli della città, quest’anno la kermesse è approdata nientepopodimeno che al Maschio Angioino, nel cuore di Napoli. Perché, se all’ombra di Partenope non bastavano food e beveraggi di cui ormai il centro storico pullula, bad and breakfast soppalcati sorti in ogni basso, con tanti saluti – nel senso di “partiti” – da parte degli autoctoni, non si poteva non ampliare lo spazio dedicato all’enogastronomia non tipica né topica, rendendo Napoli un prodotto sostanzialmente di panza. Che, diciamolo pure, fa molto… digerire.
Nessuna cultura dei musei, dunque, niente più conoscenza della città, zero sponsorizzazioni del patrimonio – in realtà quello che resta, dopo il famigerato Patto, sarebbe meglio dire Pacco, per Napoli siglato dal primo cittadino Gaetano Manfredi – la cui omonima morte è, si sa, con la ricotta e non con il pesce – e l’allora presidente del consiglio nonché liquidatore di stato Mariuolino Draghi – ma solo l’ennesima mano (in tasca) da parte di tutte le istituzioni – che poi sempre soldi dei contribuenti sono – dalla Regione al Comune, dalla Città metropolitana alle associazioni di categoria, per l’ennesima abbuffata a pagamento (doppia), tesa alla valorizzazione delle “eccellenze (non) campane”. E già, perché chi nell’intero globo terracqueo non conosce il prelibato baccalà di Pozzuoli? O il famoso stoccafisso di Castellammare? Il tutto annaffiato dalla celeberrima birra di… Gragnano! Vuoi mettere il valore aggiunto della passeggiata tra vicoli e quartieri addò ‘o sole nun se vede, dell’ormai “locale” odore di spezie e cipolle, di piscio e di monnezza a cui, di diritto, si aggiunge – pardon, si include – l’aroma del baccalà? Un capolavoro, per tatto, gusto, vista e olfatto. E, a quanto si sente, anche per l’udito. È la Napoli degli stracci e della panza, ormai. Degli orfani (di napoletanità) e degli scorfani (campani tutti). La Napoli sostituita e restituita. Sostituta a sé stessa, persino nel triste binomio di pizza & mandolino per cui ormai nemmeno Pulecenella fa cchiù ridere e pazzia’, e sostituita da prodotti importati e importanti da ogni angolo che non sia Napoli: dalla periferia più sperduta dell’entroterra asiatico, fino ai freddi mari del nord(e).
Qualora si fosse riusciti a superare l’indigesta location della sala Maior, ci si sarebbe potuto deliziare con il cuoppo di pesce in questione sotto “semplici” affreschi di Giotto, ad esempio, e pagare 30€ (a partire da) invece dei 6 stabiliti con cui si può godere anche dei reperti romani e dello splendido museo civico, quando i baccalà non ci sono. In assenza di stelle, però, (non dei penta Gigino e Robertino di cui ci auguriamo ci sia almeno la colf) & chef. Panem et circenses, per il popolino. In compenso, però, stavolta ci si è potuto imbattere in tanti varianti (e variabili. E pure avariati) che il panorama offre: dai piscitiell’ ‘e cannuccia – non solo sardine – ai pesc’ a broro, fino ai pisce “pigliate c’ ‘a botta” divenuti per per la (b)occasione tutti piranha, già squali, ma ora e sempre baccalà: NPCr, Nostalgici Pesciolini rossi.
È la fenomenologia della politica, mutata, per l’occasione, in polit(t)ica, ovvero in abbondanza di “pesci”. E, per dirla con un napoletano doc, “A proposito di politica: non ci sarebbe qualcosa da mangiare?”.
Dopo l’abbuffata, non resta che augurare buona digestione a tutti (quelli che hanno abboccato)

(L’)Ode al baccalà, ovvero la fenomenologia della pol-ittica

Nella giornata dedicata al Santo Patrono di Napoli (non gridiamo al miracolo, ma solo perché pensiamo che Gennarino da Pozzuoli abbia cose davvero più importanti di cui occuparsi) si è conclusa la sei giorni di Napoli dedicata a Sua Maestà il Baccalà: baccalàre. Come ogni regale che si rispetta, anche il pesce dei poveri, figlio del sei politico e del dogma “uno vale uno, divenuto poi uno vale l’altro, ha avuto la sua degna dimora: dopo il lungomare e altri angoli della città, quest’anno la kermesse è approdata nientepopodimeno che al Maschio Angioino, nel cuore di Napoli. Perché, se all’ombra di Partenope non bastavano food e beveraggi di cui ormai il centro storico pullula, bad and breakfast soppalcati sort in ogni basso, con tanti saluti – nel senso di “partiti” – da parte degli autoctoni, non si poteva non ampliare lo spazio dedicato all’enogastronomia non tipica né topica, rendendo Napoli un prodotto sostanzialmente di panza. Che, diciamolo pure, fa molto… digerire. Nessuna cultura dei musei, dunque, niente più conoscenza della città, zero sponsorizzazioni del patrimonio – in realtà quello che resta, dopo il famigerato Patto, sarebbe meglio dire Pacco, per Napoli siglato dal primo cittadino Gaetano Manfredi – la cui omonima morte è con la ricotta e non con il pesce – e l’allora presidente del consiglio nonché liquidatore di stato Mario Draghi – ma solo l’ennesima mano (in tasca) da parte di tutte le istituzioni – che poi sempre soldi dei contribuenti sono – dalla Regione al Comune, dalla Città metropolitana alle associazioni di categoria, per l’ennesima abbuffata a pagamento (doppia), tesa alla valorizzazione delle “eccellenze campane”. E già, perché chi dell’intero globo terracqueo non conosce il prelibato baccalà di Pozzuoli? O il famoso stoccafisso di Castellammare? Il tutto annaffiato dalla celeberrima birra di… Gragnano! Vuoi mettere il valore aggiunto della passeggiata tra vicoli e quartieri addò ‘o sole nun se vede, dell’ormai “locale” odore di spezie e cipolle, di piscio e di monnezza a cui, di diritto, si aggiunge – pardon, si include – l’aroma del baccalà? Un capolavoro, per tatto, gusto, vista e olfatto. E, a quanto si sente, anche per l’udito. È la Napoli degli stracci e della panza, ormai. Degli orfani (di napoletanità) e degli scorfani (campani tutti). La Napoli sostituita e restituita. Sostituta a sé stessa, persino nel triste binomio di pizza & mandolino per cui ormai nemmeno Pulecenella fa cchiù ridere e pazzia’, e sostituita da prodotti importati da ogni angolo che non sia Napoli: dall’angolo più sperduto dell’entroterra asiatico, fino ai freddi mari del nord(e).
Qualora si fosse riusciti a superare l’indigesta location della sala Maior, si potrebbe deliziare il cuoppo di pesce in questione sotto “semplici” affreschi di Giotto, ad esempio, e pagare 30€ (a partire da) invece dei 6 stabiliti con cui si può godere anche dei reperti romani e dello splendido museo civico, quando i baccalà non ci sono. In assenza di stelle, però, (non dei penta Gigino e Robertino di cui ci auguriamo ci sia almeno la colf) & chef. Panem et circenses, per il popolino. In compenso, però, stavolta ci si è potuto imbattere in tanti varianti (e variabili. E pure avariati) che il panorama offre: dai piacitiell’ ‘e cannuccia – non solo sardine – ai pesc’ a broro, fino a quelli “pigliate c’ ‘a botta” divenuti per per la (b)occasione tutti piranha, già squali, ma ora e sempre baccalà: NPC, Nostalgici Pesciolini rossi.
È la fenomenologia della politica, mutata, per l’occasione, in polit(t)ica, ovvero in abbondanza di “pesci”. E, per dirla con un napoletano doc, “A proposito di politica: non ci sarebbe qualcosa da mangiare?”.
Dopo l’abbuffata, non resta che augurare buona digestione a tutti (quelli che hanno abboccato).

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