“Ho scelto Filosofia, perché potrei comunque continuare a insegnarla anche senza dover scrivere. Ma devo far presto a laurearmi. Devo assolutamente riuscirci prima di diventare cieco”. Questo era Carlo Falvella, diciannovenne studente di Filosofia con una grave menomazione della vista che avrebbe perso – secondo i medici – all’età di trent’anni. Trent’anni che Carlo non vedrà mai perché la luce sulla sua vita si spegnerà prima. Molto prima.
Di Carlo, così come per la maggior parte dei martiri caduti per la rivoluzione negli anni di piombo – che non è solo un periodo di stragi, anzi – ormai conosciamo con dovizia di particolari ogni dettaglio, eccezion fatta per alcuni colpevoli.
Di Carlo, così come per la maggior parte dei martiri caduti per la rivoluzione negli anni di piombo – che non è solo un periodo di stragi, anzi – ormai conosciamo con dovizia di particolari ogni dettaglio, eccezion fatta per alcuni colpevoli.
Terzo di cinque figli e una passione quella per la politica ereditata da mamma Flora – il papà era un liberale moderato, cattolico tradizionalista e mutilato di guerra, ma non era fascista. Ai figli Carlo e Pippo che si avviavano sulla strada della militanza dirà quasi profeticamente “Io non ho nulla in contrario, ma sappiate che la politica è una statua di fango e voi vi ci dovrete sporcare le mani” – che lo porta a soli 19 anni a presiedere il FUAN cittadino, l’organizzazione giovanile missina.
Fu una spallata sul lungomare Trieste, chissà quanto volontaria, visto che il giovanissimo Carlo vedeva ad ombre, per fare armare la mano dell’anarchico Giovanni Marini che successivamente e non prima che gli animi erano stati stemperati, in serata, a freddo in via Velia e in compagnia di altri due degni compari, affonderà il coltello nel cuore di Carlo. Rigirandocelo più volte.
Fu una spallata sul lungomare Trieste, chissà quanto volontaria, visto che il giovanissimo Carlo vedeva ad ombre, per fare armare la mano dell’anarchico Giovanni Marini che successivamente e non prima che gli animi erano stati stemperati, in serata, a freddo in via Velia e in compagnia di altri due degni compari, affonderà il coltello nel cuore di Carlo. Rigirandocelo più volte.
Nonostante la corsa in ospedale e l’operazione d’urgenza, Carlo morirà per una lesione all’aorta.
Un omicidio che divise per anni la città di Salerno e non solo e dove cinquant’anni dopo è ancora vivo il ricordo, grazie anche ai suoi fratelli Pippo, diventato il punto di riferimento della Destra cittadina, decisamente meno mite del fratello e che avrà modo dire che “era morto il fratello sbagliato. Non si poteva uccidere Carlo che era una pasta di pane” e Marco presidente del Comitato Vittime del Terrorismo che, ancora dopo cinquant’anni, attraverso proposte di legge, sit-in e colloqui con politici più disparati non riesce a far inserire il nome di Carlo tra le vittime del terrorismo e dell’odio politico.
Quella politica- anche extraparlamentare – che non è mai mancata nel profondere sostegno al Marini, anzi facendosi promotrice – da Lotta Continua al Partito Comunista – di una vera e propria campagna innocentista, anche stampando – senza vergogna – il pamphlet “Il caso Marini”, in cui l’anarchico non viene certo descritto come un vile assassino, bensì come un compagno (proprio così!) che si è difeso da un’azione portata avanti da una decina di Fascisti (con Carlo c’era solo il fratello Pippo e Giovanni Alfinito, camerata e amico ferito anch’egli dalle coltellate).
Ovviamente non mancò anche l’associazione creata ad hoc per il sostegno (solo?) economico: è il caso di Soccorso Rosso che vedrà schierata addirittura l’intellighenzia “no-bel” quali Dario Fo e la di lui consorte la signora Franca Rame.
Campagne così innocentiste e strenui sostenitori di quella verità secondo cui “uccidere un fascista non è reato” oppure “Tutti i Fascisti come Falvella, con un coltello nelle budella”.
Erano anche questi gli anni di piombo, gli anni dell’omicidio Cecchin, ucciso per un manifesto probabilmente mai strappato, dell’assassinio di Sergio Ramelli, finito a colpi di chiave inglese, dell’omicidio di Primavalle, dove si bruciarono vivi i fratelli Mattei – uno non aveva che otto anni – della strage di Acca Larentia e poi, dall’altra parte, delle carriere folgoranti, dentro e fuori dal Parlamento, delle protezioni e delle sponsorizzazioni, della legge applicata e di quella interpretata.
Al funerale di Carlo partecipò commossa una vera moltitudine immensa di persone – circa diecimila persone – tutto lo stato Maggiore dell’MSI con a capo Almirante e il suo ricordo oggi è più vivo che mai, al netto delle strumentalizzazioni “parlamentarizzate” che non poco fastidio hanno creato alla famiglia, addirittura non invitata alle celebrazioni del ricordo.
Ricordo che è più attuale e valido che mai, che fedelmente incarna quella torcia che non si spegne, quel testimone passato e per cui bisogna impegnarsi anche solo per esserne degni. Degni del coraggio per quella Idea resa immortale con la morte, quella Idea che vive e che fa luce e strada, quella fiamma che ancora passa di mano in mano, dai veterani ai più giovani, quella Idea che, proprio come Carlo, vive ancora. Che, come ebbe a dire ai funerali mamma Flora “hanno ucciso Carlo ma non la sua Idea”. A distanza di cinquant’anni ha ancora ragione lei.