Noi (già stressati) utenti dei social abbiamo appreso da qualche giorno della nascita della campagna “#odiareticosta”: un’iniziativa ideata dall’avvocato bolognese e attivista LGBT Cathy La Torre che, insieme all’associazione Tlon ed allo Studio legale Wildside, avrebbe costituito un vero e proprio pool di avvocati (e non solo) per arginare l’odio espresso in rete e sui social, perseguendo in sede giudiziaria quegli utenti che scrivano, in forma di post, tweet (o come commento ai predetti), insulti, minacce o offese.
La campagna #odiareticosta – lanciata dal neonato pool di avvocati, nostri odierni supereroi del politically correct – pare diretta, sostanzialmente, ad “educare” gli utenti dei social – a colpi di querele e richieste risarcitorie – a non esprimere “odio” rispetto a certi temi.
Uno degli slogan usati per la campagna, infatti, è “L’odio ha i giorni contati”; Nell’annuncio pubblicato con un post sulla pagina Facebook della community “Odiare ti costa” si legge: “Da ora odiare ti costa. Non vi permetteremo più di danneggiare impunemente gli altri col vostro odio….”; Verrebbe da chiedersi: “arrogandosi quale particolare merito o ruolo?” poichè a questa cosa pareva avessero già provveduto sia il legislatore che il sistema giudiziario.
Non è dato ancora capire (o almeno alla sottoscritta non è chiaro) se le prestazioni professionali in discorso siano offerte dal pool a titolo gratuito oppure no; in tale ultimo caso sappiano gli utenti “offesi” che, una volta firmato il necessario mandato, avranno assunto anche l’obbligo di pagare il lavoro svolto dall’avvocato.
La prima beneficiaria della campagna non è però un’utente sconosciuto (troppo poco interessante), ma sarà, come si legge su il Giornale, Carola Rackete: l’Avvocato la Torre asserisce di avere avuto “mandato da Sea Watch di tutelarla civilmente dall‘odio sessista e insopportabile di cui è ormai vittima da un mese”.
Questo meraviglioso progetto sembrerebbe basato sulla “delazione”: il popolo dei social è infatti invitato a denunciare e segnalare al “Pool” qualsiasi frase d’odio. Lo studio legale Wildside invita gli utenti dei social e chiunque si ritenga vittima di questo tipo di atteggiamenti, ad inviare una email di segnalazione, riportando il link della conversazione, dopodichè il pool procederà (senza il necessario mandato? e come intenderebbe acquisirlo? via posta?) con la richiesta di risarcimento per le offese ricevute.
Dunque, l’elemento originale della vicenda è che si affida al popolo del web, non tutto munito di laurea in giurisprudenza, il compito di valutare e individuare quel sottile confine che corre tra la semplice ma aspra espressione di dissenso e l’offesa penalmente perseguibile; sarà il popolo del web in grado di discernere il diritto di critica, la libertà di opinione, la libertà di dissenso, anche duro (che sono diritti sacri e inviolabili) e, perchè no, anche la satira, dalle fattispecie penalmente sanzionate?
Ma l’Avv. La Torre rassicura che ad essere perseguite (e non possiamo non ammirarne la solerzia) saranno le offese, non le opinioni, né la libertà di dissenso. Ma l’ingiuria, la calunnia, le minacce.
Su Facebook l’iniziativa #Odiareticosta viene presentata spiegando che: “Criticare una donna per le sue posizioni politiche è un sacro diritto. Augurarle lo stupro è invece un delitto. Criticare una persona perché solidarizza con i migranti è un sacro diritto. Insultarla, accusarla senza prove di qualche crimine, calunniarla è invece un delitto….” e su questo non possiamo che concordare pienamente, aggiungendo però che la diffamazione, l’ingiuria, la calunnia, l’offesa e la minaccia (anche tramite social) già di per sè, costituiscono comunque reati perseguibili e risarcibili, anche laddove non ci si rivolga al mitico “Pool anti-odio”. E allora quid novi?
Come avvocato, consentitemi di esprimere (e vi giuro che è solo un parere personale e non una manifestazione di odio verso il “Pool”) qualche legittimo dubbio in merito al disinteressato sentimento di giustizia che fonderebbe questa “lodevole” iniziativa: insomma, siamo davvero sicuri, sicuri che sia un’iniziativa tesa solo ad arginare l’odio espresso in rete (ci auguriamo poi tutto e non solo quello espresso da una ben precisa parte politica), oppure si tratta, più meschinamente, di una delazione sollecitata per il procacciamento di affari e di clienti, peraltro severamente vietato e sanzionato dal codice deontologico forense?
E qual è il limite tra la pubblicizzazione di un’iniziativa “meritevole e disinteressata” quale questa in discorso e la violazione delle norme e dei divieti posti dal codice deontologico forense, quale ad esempio il divieto di “procacciamento di clientela”? (violazione in cui incorrerebbe indubbiamente un ipotetico professionista che istigasse pubblicamente gli utenti alla proposizione di azioni legali, cavalcando magari un tema capace di suscitare interesse mediatico, per un ritorno personale economico o di pubblicità).
Tralasciando poi le modalità “singolari” di divulgazione che l’iniziativa in discorso sta progressivamente acquisendo sui social: ad esempio, l’utente “Naira Regina di Lettera” con un commento pubblico al post pubblico di un giornale on line – riguardante l’uccisione a Roma del Carabiniere napoletano – ci ha tenuto subito, energicamente a ricordare, a tutti i lettori che si accingevano a commentare, che “Ogni commento pieno d’odio verrà fotografato e pubblicato senza censura, con nome e cognome e saranno visibili online sui vari siti e social a favore della campagna #odiareticosta...”
Insomma, va bene sanzionare chi deprecabilmente offende, ingiuria e minaccia ma che quelli cosiddetti “buoni che vogliono combattere l’odio” arrivino a tali vette di solerzia da minacciare per primi ed a priori (!) l’esposizione al pubblico ludibrio mi pare un tantinello fuori dai margini della legalità. O magari si tratta di una soluzione omeopatica al problema dell’odio sui social?
Senza considerare che questa divulgazione, a fini denigratori, di post, tweet e di commenti duri o aspri innesca sempre, inevitabilmente, una spirale di commenti, altrettanto discutibili e violenti, da parte di chi è schierato dalla parte opposta.
Ma torniamo un istante al Codice Deontologico Forense.
Il CDF pone specifici divieti in capo all’avvocato riguardanti l’offerta delle proprie prestazioni professionali, stabilendo che queste non devono assumere modalità che contrastino con il «decoro» o la «dignità» della professione e, all’art. 37, in particolare ai commi 4 e 5, stabilisce che: “4. E’ vietato offrire, sia direttamente che per interposta persona, le proprie prestazioni professionali al domicilio degli utenti, nei luoghi di lavoro, di riposo, di svago e, in generale, in luoghi pubblici o aperti al pubblico. 5. E’ altresì vietato all’avvocato offrire, senza esserne richiesto, una prestazione personalizzata e, cioè, rivolta a una persona determinata per uno specifico affare”.
Norme, queste, tese a sanzionare casi, verificatisi in passato, come quello dei c.d. «cacciatori di ambulanze in cui alcuni professionisti distribuivano all’interno delle corsie di ospedale i propri biglietti da visita, una «pratica vietata», superata però oggi da quella molto più efficace di intercettare i clienti attraverso i social, che si sostanzia nel «pubblicare un “post” rivolto alle vittime di un qualsiasi evento che susciti attenzione mediatica, in violazione del divieto, previsto dalla norma citata, di «rincorrere mandati professionali» con l’offerta di prestazioni non richieste.
Ma, ripensandoci, diamo fiducia al Pool, anzi vi dirò, se non fossi avvocato, approfitterei personalmente dell’iniziativa, visto che capita spesso di imbattermi in chi mi augura di essere stuprata e di penzolare a testa in giù solo per avere espresso le mie opinioni politiche in contrasto col pensiero unico di sinistra.