Questa è una storia all’incontrario, che si inizia a raccontare dalla fine, che è tale solo per la sua cronologia, degna di un Paese (purtroppo) rovesciato.
È una storia di contraddizioni tipiche e topiche di questa Italia ormai identificazione dell’ossimoro per antonomasia. È una storia di ricordi, che per ricordare ti impone di dimenticare.
È la storia dei 30 anni della strage di Via d’Amelio, che 30 anni dopo ancora non si chiama con il proprio nome: depistaggio! Perché depistaggio è “stato” o, se vogliamo, di depistaggio si è “trattato”.
Accade così che si ricorda la morte di Paolo Borsellino e degli agenti della scorta Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Emanuela Loi, Claudio Traina e Vincenzo Fabio Li Muli con un florilegio d’occasione, opportun(istic)amente preparato. Miscellato. E miscelato. Accade così che nemmeno quest’anno – e quest’anno più che mai – ci si ricorderà di dimenticare le origini del personaggio Paolo Borsellino, quel giovane studente liceale a dirigere un giornale destrorso – L’Agorà – e poi nel 1959 da studente di Giurisprudenza iscriversi al FUAN, l’organizzazione giovanile dell’MSI, rappresentante della lista “Fanalino”, fino ad entrare a farne parte e diventare in solo tre anni il vice di Guido Lo Porto.
Suo amico di allora era Pippo Tricoli, storico esponente, o meglio, esponente storico della Destra siciliana che gli presentò un altro uomo “di valore”, un giovane assistente universitario, Adriano Romualdi, altro intellettuale della “parte sbagliata” morto prematuramente a 33 anni in uno strano incidente stradale.
Personalità della parte sbagliata, ma di talento, che avevano il senso dell’onore e la conoscenza della Tradizione, che non consideravano la coerenza e la fede in un’Idea, la virtù degli imbecilli. E che rischiavano per le proprie Idee anche la vita perché, come scriveva Ezra Pound, “Se qualcuno non è disposto a lottare per le proprie Idee, o queste non valgono niente o non vale niente lui”. E Paolo Borsellino è uno che per le sue Idee aveva sentito forte il desiderio di mettersi al servizio della Nazione e di lottare contro la mafia, fino all’estremo sacrificio della sua vita, accolto con eroico fatalismo.
Paolo Borsellino, però, non è il solo eroe e martire di questa ingloriosa repubblica, fastidiosa da quando ha avuto l’ultimo – speriamo vivamente di no – sussulto di orgoglio patrio con la faccenda dell’Achille Lauro. Che, è bene sappiano le nuove generazioni, non è solo il sindaco più glorioso che Napoli abbia mai avuto, né l’indegno (del nome) urlatore defecato a Sanremo.
Se si parla di eroi caduti nella lotta alla mafia non si può non ricordare il giornalista Mauro De Mauro, aderente alla RSI con la gloriosa X MAS, corrispondente dalla Sicilia per più giornali, probabilmente eliminato per le sue indagini scomode – allora il giornalismo si faceva così – sulla morte di Enrico Mattei. Scomodo come Beppe Alfano, una vita tra Fronte della Gioventù, Ordine Nuovo e Movimento Sociale-Destra nazionale, per le sue inchieste – era un giornalista! – sugli appalti pubblici sui cui Cosa Nostra aveva messo le mani e che lo “premiò” con tre colpi di pistola. E, andando a ritroso, come non citare il Prefetto di ferro, Cesare Mori i cui risultati non hanno bisogno certo di presentazioni, ma di tanta mistificazione, misto a revisione, vista la sua appartenenza di governo. Risultati inquinati dagli stessi autori dello strappo di Sigonella, mezzo secolo prima. E sfidiamo a trovare qualcuno che sui libri si storia – stando al lasso di tempo di questo si tratta – abbia trovato anche solo citato il nome di Mariano De Caro, ragioniere formatosi alla Real Scuola Gagini di Palermo, universitario e tiratore scelto nella fanteria Trapani e poi inviato al fronte con il grado di sottotenente nella Grande Guerra. Avvicinatosi ben presto ai Fasci di Combattimenti spese la sua vita – insieme ad altri ex combattenti – nel tentativo di alimentare sentimenti di riscossa tra i braccianti e i salariati di Misleri dove ancora i padroni delle terre e i latifondisti pensavano solo allo sfruttamento dei lavoratori e al proprio tornaconto personale, facendo leva su minacce e oppressione.
Anche per questo occorre ricordare di dimenticare. Allo scopo, è utile qualsiasi favoletta preconfezionata come quelle pronte da spacciare per ogni occasione. Chi se ne frega, allora, di fare sapere quale sia il depistaggio se il processo Borsellino quater (che sta per quattro processi ognuno composto di tre fasi di giudizio ha stabilito che c’è “stato” inequivocabilmente il depistaggio) se le accuse a carico degli imputati sono andate in prescrizione! Che non significa che non hanno colpe. Dunque, un depistaggio c’è stato, ma non si sa chi sia stato. Neppure quei soggetti-oggetti pezzi di istituzioni accusati di aver vestito il “pupo” Scarantino sulla cui parola sono state emesse sentenze – definitive, anche di ergastolo – quando è appurato, dimostrato e cosa nota che Scarantino è ritenuto inattendibile. Uno che – lo dice lui, eh! – in una riunione deliberativa di commissione (mafiosa), quella in cui Totò Riina comunicò di uccidere anche Borsellino e si raccomandava pure di fare attenzione perché Falcone, se fosse stato al suo posto in auto, sarebbe stato ancora vivo, entra a prendere un bicchiere d’acqua. In una riunione di commissione. Deliberativa. E su queste dichiarazioni di questo personaggio, in nome del popolo italiano di questa disastrata repubblica si è emesso una sentenza di condanna all’ergastolo di un povero cristo – chissà cosa ne pensa del quesito ad hoc del referendum sulla giustizia di cui tanti se ne sono fottuti – che il lunedì mattina (20 luglio) apre la sua officina e si accorge di un furto di targhe di una 126 e, recatosi al commissariato Brancaccio, viene trattato come il peggiore dei criminali. Che ad esplodere in via D’Amelio sarà una 126 lo si appurerà solo nel tardo pomeriggio del 20 luglio, quando un tecnico FIAT venuto da Termini Imerese riconoscerà un blocco motore compatibile(!) con quelli montati sulle 126 ma che dalle immagini girate dai Vigili del fuoco non compare mai. 126 che viene già menzionata nel lancio di un’agenzia di stampa (Ansa) tre quarti d’ora dopo l’esplosione. Dopo l’arrivo dei Servizi Segreti (americani) che arrivano in sito nel giro di un quarto d’ora e “vestiti tutti uguali e senza una goccia di sudore – è domenica 19 luglio a Palermo! – freschi che sembravano stessero dietro l’angolo” dirà un poliziotto in qualità di teste. È pur vero che in Via D’Amelio c’erano tutti quel 19 luglio. Anche chi fece repertare tutto e, raccogliendo la roba in sacchi della spazzatura neri, di quelli condominiali e catalogando alla carlona con un generico “si sequestra quanto ivi contenuto” – cioè nulla – inviò tutto a Roma a disposizione dell’FBI. E perché? E perché l’FBI non ha mai nemmeno fatto (pervenire?) un verbale? Una catalogazione? C’è una pista americana anche per via D’Amelio? Gli stessi americani che non digerirono Sigonella? Che, pare, siano stati la regia della strage di Capaci, dove gli esperti di esplosivistica hanno “sentenziato” che non si può fare saltare in aria un’autostrada tramite un cunicolo, se non vi è un muro laterale che faccia sì che l’esplosione non avvenga appunto di lato?
E che in via D’Amelio il depistaggio inizi proprio dalla 126 di cui gli inquirenti sono così sicuri tanto da fare rimangiare ai “pentiti” le dichiarazioni che l’esplosivo è stato messo in un bidone della calce. Gli stessi inquirenti, coadiuvati da “pezzi di istituzione” che hanno distrattamente (o)messo verbali – inesistenti per loro stessa ammissione in fase processuale di interrogatori di taluni pentiti – in faldoni di “ignoti” ovvero tra le denunce dormienti dello scippo e del furto di bicicletta.
Ma se la legge è uguale per tutti, ma c’è qualcuno più uguale degli altri, perché mai questo non dovrebbe valere per i pentiti i cui reati più gravi sono stati, più persone hanno ammazzato direttamente proporzionale è il loro valore? Pentiti che non esistevano quando ancora nelle istituzioni non avevano dato il compito di creare il “pentitificio” di stato a chi è assente da ogni processo, da ogni intervista e non risponde alle accuse né ad elogi. Niente. Spariti. A mo’… di latitante.
Che ha, però, utilizzato – come altri – la mafia e la Sicilia quale trampolino di lancio per sfavillanti carriere. In Polizia come in Magistratura. Qualcuno pure in politica, dalla magistratura, per poi tornare indietro e riciclarsi. Come se nulla fosse. Magari mettendo in croce omologhi, altri valorosi personaggi quali funzionari, dirigenti, numeri uno dell’apparato dell’italica intelligence – penso al dr. Bruno Contrada e alla sua odissea giudiziaria – che hanno dovuto subire l’onta dell’infamia solo perché si sono dovuti sporcare le mani nella lotta alla mafia, visto che la figura del collaboratore di giustizia non era ancora stata creata come stipendiata dallo stato. Magari incurante della memoria a tempo e delle dichiarazioni prive di riscontro come l’incontro con persone morte, incontri avvenute in stanze mai esistite e in tempi incompatibili per delinquenti rinchiusi in carcere. Al 41 bis. Oppure no. Il che apre alla connivenza istituzionale. Pezzi di… istituzioni che anche quest’anno saranno in prima fila a Capaci prima e in via D’Amelio poi, magari appenderanno anche il peluche petaloso in via Notarbartolo raccomandando(si), ancora una volta, di ricordare di dimenticare.